Essere facoltosi e appartenere al mondo della finanza e dell’imprenditoria non rappresentano di per se stessi impedimenti a svolgere mansioni di governo. La preoccupazione deriva piuttosto dai potenziali conflitti di interesse derivanti da ricchezza e rapporti d’affari.
Tale giustificata apprensione si è accentuata con l’entrata in carica della seconda amministrazione di Donald Trump, sebbene la normativa etica federale degli Stati Uniti stabilisca che i membri del governo vendano le loro azioni e partecipazioni societarie o le affidino a un blind trust.
Nel pieno rispetto della sua antonomasia, infatti, il tycoon ha costituito un esecutivo di superricchi con fortune personali stimate complessivamente in oltre 460 miliardi di dollari, se si prendono in considerazione non solo i titolari dei dicasteri, ma anche sottosegretari, consiglieri di vario livello e diplomatici.
Secondo la rivista Forbes, per esempio, la famiglia dell’ambasciatore presso l’Organizzazione degli Stati Americani, Leandro Rizzuto Jr., aveva beni per 3,5 miliardi di dollari nel 2017, mentre la fortuna dell’inviato speciale per il Medio Oriente, Steven Witkoff ammonterebbe a un miliardo di dollari.
Per limitarsi, invece, ai soli segretari di dipartimento nominati da Trump e ancora in corso di conferma da parte del Senato, il totale della loro ricchezza, per la rete televisiva ABC, sarebbe dell’ordine dei sette miliardi di dollari, contro i soli 118 milioni dei membri del cabinet di Joe Biden che hanno appena concluso il loro mandato.
Il più miliardario tra i miliardari
La parte del leone tra i miliardari dell’amministrazione Trump è fatta ovviamente da Elon Musk, padrone di X (in precedenza Twitter), Tesla e SpaceX: da solo disporrebbe di un patrimonio valutato tra i 360 e i 400 miliardi di dollari. Musk, però, non è formalmente un membro del governo, perché il Department of Government Efficency (DOGE), di cui Trump lo ha messo alla guida, non è un vero dicastero, ma un comitato consultivo.
Tant’è che la nomina di Musk non ha avuto bisogno di essere ratificata dal Senato. Eppure i conflitti di interesse di Musk sono evidenti perché almeno un 10% circa delle sue fortune personali deriverebbe da precedenti contratti stipulati dalle sue aziende con l’amministrazione federale e le prospettive di profitto per il magnate di origine sudafricana sono indubbiamente cresciute con l’entrata in carica di Trump.
Saranno gli Stati Uniti o i profitti di Musk a raggiungere Marte?
Tra i molteplici obiettivi della sua presidenza, esposti nel discorso d’insediamento di lunedì scorso, The Donald ha inserito anche il perseguimento del “destino manifesto” degli Stati Uniti “tra le stelle lanciando astronauti statunitensi per piantare la bandiera a stelle e strisce sul pianeta Marte”. Questo impegno ha mandato in visibilio proprio Musk, che non ha mancato di manifestare il suo entusiasmo in mondovisione alzando le braccia in segno di giubilo alle parole del presidente.
La ripresa delle esplorazioni spaziali non comporta soltanto un richiamo allo spirito dei pionieri e ai nobili ideali della Nuova Frontiera di John F. Kennedy, che nel 1969 portarono l’uomo sulla Luna quando la presidenza era ormai passata a Richard M. Nixon. Il rilancio in grande stile dei viaggi statunitensi nello spazio significa soprattutto lucrosi affari per SpaceX.
La società aereospaziale privata di Musk, infatti, mira a diventare il principale contractor della NASA, l’agenzia federale responsabile dei programmi e delle ricerche spaziali degli Stati Uniti, con la quale SpaceX ha già sottoscritto commesse per oltre 15 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni.
Forse SpaceX punta addirittura a sostituire la NASA. In ogni caso, è ragionevole ipotizzare che la realizzazione delle aspirazioni di Musk sarà facilitata dal suo ruolo di capo DOGE, in quanto l’esternalizzazione di alcune funzioni della NASA a vantaggio di SpaceX potrà essere presentata come un contributo per diminuire la spesa pubblica (Musk ha promesso di tagliare 2 trilioni di dollari di uscite) e per rendere appunto più efficiente l’azione dell’amministrazione federale.
È anche possibile che i piani di Musk trovino l’appoggio del direttore designato della NASA, Jared Isaacman, che ha collaborato in passato con il titolare del DOGE e, a sua volta, è un imprenditore dell’industria aereospaziale privata. Sono in qualche modo connessi a Musk pure altri membri del nuovo governo, a partire da Howard Lutnick, il finanziere che il CEO di SpaceX avrebbe voluto alla testa del dipartimento del Tesoro salvo doversi accontentare del fatto che gli sia stato affidato il dicastero del Commercio, e da Sriram Krishnan, il consigliere della Casa Bianca per l’Intelligenza Artificiale.
Un secolo e mezzo di conflitti di interesse
Al di là del ricoprire un incarico più o meno formale, il ruolo di Musk nell’amministrazione Trump ripropone ancora una volta e in modo macroscopico la questione del conflitto di interesse all’interno del governo federale. Si tratta di un problema che ha investito gli Stati Uniti fin quasi dalla loro indipendenza.
Il primo titolare del dicastero del Tesoro, Alexander Hamilton (1789-1795), fu sospettato di aver utilizzato la sua posizione per agevolare alcune speculazioni finanziarie condotte da James Reynolds, il marito della sua amante, Maria Reynolds. Inoltre, fautore del sostegno dello Stato federale alla nascente industria manifatturiera, Hamilton era azionista di una di queste aziende insieme al sottosegretario al Tesoro Tench Coxe.
Neppure emergenze nazionali di vaste proporzioni come i conflitti militari misero gli Stati Uniti al riparo dal perseguimento degli interessi d’affari personali da parte dei membri del governo. Per esempio, al tempo della guerra civile tra il Nord e il Sud, nei dieci mesi in cui ricoprì la carica di segretario del dipartimento della Guerra dell’Unione, tra il marzo del 1861 e il gennaio del 1862, per spostare truppe, armi e rifornimenti Simon Cameron si avvalse della rete ferroviaria della Northern Central Railroad, di cui era azionista, ed escluse dai contratti governativi la rivale Baltimore and Ohio Railroad: in quel breve periodo i profitti della società di cui Cameron deteneva azioni crebbero del 40%.
La compenetrazione tra il mondo degli affari e il governo statunitense si accrebbe all’alba del Novecento, in coincidenza con l’aumento delle funzioni dell’amministrazione federale nella vita economica degli Stati Uniti. Lyman Gage, il segretario del Tesoro delle amministrazioni di William McKinley, tra il 1897 e il 1902, attuò una rigida politica deflazionista per andare incontro alle esigenze degli istituti di credito privati, quella realtà da cui egli stesso proveniva in quanto ex presidente della First National Bank of Chicago e alla quale sarebbe tornato al termine dell’incarico di governo come presidente della United States Trust Company di New York.
Andrew Mellon, il più facoltoso banchiere americano del primo dopoguerra, dovette dimettersi da una sessantina di consigli di amministrazione per venire confermato come segretario del dipartimento del Tesoro, incarico che svolse per oltre dieci anni, dal 1921 al 1932, durante le presidenze dei repubblicani Warren G. Harding, Calvin Coolidge e Herbert Hoover. Quest’ultimo era a sua volta un ingegnere milionario, arricchitosi come consulente di aziende minerarie di cui arrivò in parte a essere proprietario. Se, come affermò Coolidge nel 1925, “Gli affari principali del popolo statunitense sono gli affari”, le squadre di governo di quegli anni riflettevano almeno in parte questa dichiarazione.
Il governo dei milionari
La maggiore concentrazione di businessmen al governo nel corso del Novecento si ebbe forse nel primo cabinet del repubblicano Dwight D. Eisenhower (1953-1957), passato non a caso alla storia come l’amministrazione di “nove milionari e un idraulico”. Il fontaniere era Martin Patrick Durkin, ex segretario del sindacato della categoria, che fu nominato alla guida del dicastero del Lavoro.
Tutti gli altri membri del governo provenivano dal settore delle imprese, della finanza o da attività collegate. Valeva anche per l’unica donna, Oveta Culp Hobby, titolare del dipartimento della Sanità, Istruzione e Welfare, che era proprietaria di uno dei più diffusi quotidiani texani, lo “Houston Post”.
Il potenziale conflitto di interesse dei componenti dell’amministrazione Eisenhower emerse in modo esplicito fino dalle audizioni al Senato per la conferma di Charles Erwin Wilson, l’ex presidente e amministratore delegato dell’industria automobilistica General Motors, alla carica di segretario della Difesa.
Alla domanda se avrebbe potuto prendere decisioni contrarie alle esigenze della sua ex azienda, Wilson rispose di aver ritenuto per anni che “quel che andava bene per il nostro Paese andava bene per la General Motors e viceversa”. I media colsero soprattutto la parte finale della sua dichiarazione e suggerirono che Wilson avrebbe subordinato gli interessi degli Stati Uniti a quelli della General Motors. Wilson ribatté di essere stato frainteso.
Tuttavia, è un dato di fatto che alcune iniziative dell’amministrazione Eisenhower andarono incontro alle necessità delle case automobilistiche. In particolare, nel 1956, il Federal Aid Highway Act, fatto promuovere dal presidente, stanziò 25 miliardi di dollari per la costruzione di una rete autostradale interstatale, un piano di sviluppo che rappresentò un fortissimo incentivo all’acquisto di autoveicoli e quindi alla crescita dei profitti delle aziende del settore.
Anche la politica estera di Eisenhower fu lambita dalle ombre del conflitto di interesse. Il segretario di Stato John Foster Dulles era socio dello studio legale Sullivan & Cromwell, che curava gli interessi della United Fruit Company, la multinazionale americana di frutti tropicali che era stata espropriata dal governo guatemalteco del presidente Jacobo Árbenz Guzman, rovesciato nel 1954 da un colpo di stato fomentato dalla CIA, di cui era direttore Allen Welsh Dulles, il fratello minore del responsabile della politica estera di Washington.
Un problema storicamente bipartisan
Il conflitto di interesse, reale o potenziale, non è stata una prerogativa delle sole amministrazioni repubblicane, quelle che almeno un tempo erano più vicine al mondo degli affari. Il democratico Franklin D. Roosevelt, nominò nel 1934 Joseph P. Kennedy, padre del futuro presidente, alla guida della Securities and Exchange Commission, l’ente federale appena creato per vigilare sulla regolarità delle operazioni di borsa.
Kennedy era stato uno dei pochi operatori finanziari che erano riusciti a guadagnare con il crollo di Wall Street nel 1929 e, quindi, era sicuramente un esperto di mercato azionario. Tuttavia, era anche stato uno dei finanziatori della campagna elettorale di Roosevelt e il fatto che le sue fortune continuarono a crescere anche dopo il 1934 suggerisce che la carica pubblica ebbe pure una qualche ricaduta positiva sui suoi affari privati.
Passando alla fine del Novecento, il secondo segretario del Tesoro del democratico Bill Clinton, Robert Rubin, in carica dal 1995 al 1999, prima di entrare a far parte del governo aveva lavorato per ventisei anni alla banca d’affari Goldman Sachs. Il suo successore, Lawrence Summers, prima di tornare nell’amministrazione federale nel 2009 come direttore del Consiglio Nazionale dell’Economia sotto Barack Obama, era stato per circa un anno e mezzo direttore esecutivo del fondo d’investimenti D. E. Shaw & Co.
George W. Bush e la riproposizione dei conflitti d’interesse
In effetti, l’avvento del XXI secolo non ha comportato il superamento dei conflitti di interesse all’interno del governo federale. Basti pensare al caso di Dick Cheney. Prima dell’elezione a vicepresidente dell’amministrazione del repubblicano George W. Bush nel 2000, Cheney era stato amministratore delegato della Halliburton, una multinazionale specializzata nella fornitura di impianti per l’estrazione e la distribuzione di greggio.
Nel dicembre del 2001, quindici mesi prima dell’inizio delle operazioni militari degli Stati Uniti contro il regime di Saddam Hussein, l’ex azienda di Cheney ricevette dal governo federale, senza alcuna gara di appalto, una commessa del valore di sette miliardi di dollari per ripristinare l’operatività dei pozzi petroliferi e degli oleodotti iracheni nel caso fossero rimasti danneggiati in un’eventuale guerra tra Washington e Baghdad.
Una collega di governo di Cheney, Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale nella prima amministrazione di Bush Jr. e segretario di Stato nella seconda, era stata membro del consiglio di amministrazione della società petrolifera Chevron. Del resto, sia Bush Jr. sia suo padre George H.W. Bush appartenevano a una famiglia con radicati interessi d’affari nel settore dell’estrazione del greggio.
Oltre Musk
I potenziali conflitti di interesse della nuova amministrazione Trump non si fermano a Musk. Per esempio, Pam Bondi, la prossima procuratrice generale (la versione statunitense del ministro della Giustizia di uno Stato europeo), da avvocata ha curato gli interessi del GEO Group, un’azienda privata che gestisce strutture carcerarie e centri di detenzione per immigrati e che nel 2019 ha tratto più della metà del proprio fatturato da contratti con agenzie federali.
Il dicastero dell’Energia sarà guidato da Chris Wright, già CEO di Liberty Energy, un’azienda specializzata nel fracking, la compressione idraulica delle rocce per ricavarne idrocarburi che ha un impatto devastante sull’ambiente, nonché membro del consiglio di amministrazione di Oklo Inc., società produttrice di energia nucleare.
A dirigere il dipartimento del Tesoro è destinato Scott Bessent, co-fondatore dello hedge fund Key Square Group.Sean Duffy, designato da Trump alla testa del dicastero dei Trasporti, è stato un lobbista per la Partnership for Open and Fair Skies, la coalizione delle principali compagnie aeree statunitensi, e si è battuto in particolare per un ridimensionamento della normativa sulla sicurezza nel trasporto aereo e sulla limitazione dell’emissione dei gas responsabili del riscaldamento globale.
Il principale sponsor politico del neosegretario dell’Interno, l’ex governatore del North Dakota Doug Burgum, è Harold Hamm, magnate nel campo dell’estrazione di greggio e gas naturale. Hamm avrebbe voluto che Burgum fosse addirittura candidato alla vicepresidenza al posto di J.D. Vance. Ma il dipartimento dell’Interno non è risultato certo un ripiego di minor conto per l’imprenditore, considerato che sarà il dicastero incaricato di rilasciare le autorizzazioni per realizzare l’invito trumpiano a “drill, baby, drill”.
La scelta di Vance è stata sostenuta soprattutto da Peter Thiel, per la cui società di venture capital il vice di Trump ha lavorato da giovane prima di entrare in politica. È stato Thiel che ha favorito l’approdo di Vance al campo dei trumpisti e che ha finanziato in larga parte la campagna elettorale che ha portato Vance al Senato in rappresentanza dell’Ohio nel 2022.
Palantir Technologies, una delle aziende di Thiel specializzata nell’analisi dei big data, ha nell’amministrazione federale uno dei suoi principali clienti e si può supporre che possa sviluppare ulteriormente i rapporti d’affari con Washington grazie al credito di riconoscenza politica maturato con Vance, anche alla luce della constatazione che entrambi sembrano condividere un progetto di trasformazione dell’apparato del governo in senso di autoritarismo tecnologico.
L’acme trumpiana
Ancor più inquietante è la prospettiva di un conflitto di interesse che potrebbe avere al centro lo stesso Trump. Dopo averle a lungo avversate, definendole una “truffa”, The Donald si è convertito alle criptovalute.
Il venerdì precedente il suo insediamento, ne ha addirittura lanciata una propria, $Trump, emessa da due società, la CIC Digital LLC e la Fight Fight Fight LLC, riconducibili alla Trump Organization cioè alla holding del tycoon, che ne deterrebbero l’80%.
$Trump è stata seguita da $Melania. Quest’ultima ha avuto un avvio stentato, scendendo da 13 a 4 dollari. Invece, il valore di mercato di $Trump è aumentato rapidamente e, al di là delle fluttuazioni momentanee (era quotata 10 dollari il 18 gennaio e, dopo un picco di 74,59 dollari, si è attestata a 39 dollari il 22 gennaio) è destinato a consolidare la sua crescita, arricchendo chi sta dietro le società che l’ha coniata, se le criptovalute, che finora ne sono rimaste escluse, entreranno a fare parte delle riserve strategiche finanziarie degli Stati Uniti.
La decisione in merito ovviamente spetterà al presidente, cioè proprio a Trump. The Donald la potrà giustificare, sostenendo che le criptovalute contribuiranno a ridurre il debito pubblico federale. Quest’ultimo ammonta oggi a circa 36 trilioni di dollari, a fronte del fatto che gli Stati Uniti detengono bitcoin per 19 miliardi di dollari, sequestrati a criminali. Però, alla diminuzione del debito dello Stato federale corrisponderà un arricchimento dello stesso tycoon, con buona pace dell’etica.
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle