Eppure non sono mancati in questi giorni le critiche e le perplessità da parte di alcuni sindacalisti e di qualche commentatore, che per mestiere si devono sempre dichiarare scettici di fronte alle possibilità di sviluppo dell’auto in Italia. Ma nessuno dei critici della strategia di Marchionne accenna alla rovinosa caduta del mercato italiano dove la vendita di auto è dimezzata negli ultimi quattro anni, e tanto meno si avanza una qualche autocritica sulla situazione di competitività del nostro paese e sui vincoli del mercato del lavoro che rendono poco economico produrre in Italia. Invece si pone l’accento sulla debolezza della situazione finanziaria dell’azienda, invocando un aumento di capitale ritenuto un obbligo morale per la famiglia Agnelli, ma dimenticando che ci sono anche altri centomila azionisti, e che tutti coloro che operano sul mercato dei capitali dovrebbero essere guidati solo dall’intento di fare buoni affari.
Così Marchionne risponde a Mauro che oggi un aumento di capitale sarebbe “una distruzione di valore”. Parole chiave che però il direttore di Repubblica lascia cadere, probabilmente non avendo ben capito fino in fondo il loro significato dal punto di vista dell’effettivo funzionamento dei mercati finanziari. Questo significa che oggi l’azienda ritiene che la propria capitalizzazione sia sottovalutata rispetto al reale valore dei suoi asset e che quindi fare un aumento di capitale a questi prezzi significherebbe regalare un pezzo del valore inespresso ai nuovi azionisti. Del resto basti pensare che Fiat oggi capitalizza poco più di 8 miliardi di Euro mentre ad esempio la sola Ferrari potrebbe essere prudentemente valutata tra i 4 ed i 5 miliardi. Chrysler ai prezzi della transazione appena conclusa con Veba varrebbe 10 miliardi. E tutto il resto da Marelli ai veicoli commerciali costruiti nella fabbrica modello di Val di Sangro qualcosa dovranno pur valere. Il convertendo è un prestito obbligazionario che potrebbe essere emesso a tassi abbastanza contenuti per Fiat in quando offre la facoltà di essere convertito in azioni ad un prezzo che dovrà essere più alto di quello attuale ma più basso rispetto al target che potrà essere raggiunto una volta partito il nuovo piano industriale basato sulla completa integrazione due aziende anche sul piano della rete commerciale nel mondo.
Ma i nostri paladini della industrializzazione forzata stile piano quinquennale tipo Unione Sovietica, dal segretario generale della Fiom Maurizio Landini al presidente della Commissione Industria del Senato, Massimo Mucchetti, insistono sulla parola magica degli investimenti anche se il mercato non c’è e se le condizioni di produttività degli impianti sono ostacolate da una normativa antiquata del mercato del lavoro e degli accordi contrattuali continuamente sconvolti dalle incursioni della Magistratura e da ultimo della Corte Costituzionale che ha cancellato l’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, peraltro a suo tempo voluto dagli stessi sindacati. Marchionne spiega chiaramente che certi investimenti sono stati rinviati a causa del mercato italiano ed europeo molto depresso e che oggi si può riformulare un piano grazie alla disponibilità della rete commerciale internazionale assicurata da Chrysler. Insomma, pur sperando in una ripresa dell’Europa, il destino vero delle fabbriche italiane sarà quello di produrre, almeno per una quota rilevante, per l’export. Qui si potrebbe aprire utilmente un discorso per i nostri sindacalisti ed i nostri politici, e cioè quello di delineare un piano di politica economica per favorire le nostre esportazioni. Ma sarebbe un discorso scomodo e complicato. Più facile, e meno responsabilizzante lanciare frecciatine calunniose nei confronti della Fiat e degli Agnelli, tanto poi nessuno potrà chiamarli a rispondere di eventuali azioni di loro pertinenza, promesse e non fatte.
Sarebbe infine utile ricordare a Massimo Mucchetti che un suo illustre concittadino, il compianto Luigi Lucchini grande industriale siderurgico bresciano, diceva che esistono due modi sicuri per portare al fallimento un’azienda: il primo era quello di giocarsi il patrimonio al casinò o con le donne ( ma almeno ci si divertiva) ed il secondo era quello di fare investimenti sbagliati ( cioè eccessivi o troppo anticipati rispetto al mercato) perché quel capitale non si può più recuperare ,con il risultato di sfociare in una crisi che manda in fumo sia l’azienda che i posti di lavoro. Certo gli investimenti sono necessari per far progredire un paese, però sarebbe bene che quanti troppo facilmente si riempiono la bocca con la parola “investimenti”, ricordassero gli ammonimenti del saggio Lucchini.