Coltivato in Messico già 9.000 anni fa, importato in Europa da Cristoforo Colombo dopo la scoperta dell’America, ma già conosciuto anche in Asia e Africa, il Peperoncino piccante ha trovato in Italia una seconda patria. Nel nostro paese se ne consumano circa 700.000 quintali l’anno ma solo il 30 per cento è coltivato in Italia soprattutto in Calabria, Basilicata, Puglia, Lazio, Sicilia e Abruzzo, viceversa il 70 per viene importato dall’Asia.
Con qualche problema per la nostra salute. In Oriente viene coltivato infatti con procedure che preoccupano non poco, vengono usati fitofarmaci non permessi dalla nostra legislazione, viene usata mano d’opera sottopagata, si essicca a cielo aperto e quindi in balia delle intemperie del tempo e della fauna circostante.
Ma tutto questo si riverbera sui prezzi che sono molto bassi rispetto al peperoncino made in Italy che nel rispetto di procedure fitosanitarie e di lavorazione ha costi superiori. Ciò comporta che nonostante il gran consumo di peperoncino che si fa da noi alcune specie autoctone stiano scomparendo non reggendo alla concorrenza asiatica.
E’ il caso del peperoncino Tri pizzi, detto anche più familiarmente Minni di vacca, per la sua forma, caratterizzata da tre protuberanze all’estremità inferiore del frutto che ricorda quella della mammella di una mucca.
In Calabria cresce nell’area del Monte Poro, in provincia di Vibo Valentia, un territorio molto rurale, dove non ci sono industrie che inquinano ma solo aziende agricole.
«Lo coltiviamo – racconta Gabriele Crudo, produttore del tri pizzi – in un’area di cui fanno parte una dozzina di comuni, tra questi c’è Spilinga», la località nota per la ‘nduja, il salume spalmabile di cui proprio questa varietà di peperoncino è ingrediente indispensabile.
Negli ultimi anni il numero dei produttori di questa pregiata varietà di peperoncino si è andata assottigliando cedendo alle logiche in alcuni casi devastanti del mercato. E il suo futuro era a rischio.
Fortunatamente è intervenuta Slow Food che ha incluso il peperoncino Tri Pizzi nell’Arca del Gusto, il progetto con cui si individuano gli alimenti a rischio estinzione in tutto il mondo. Con il peperoncino tri pizzi, l’elenco dei prodotti italiani tocca quota mille segnalazioni.
«Il prezzo del peperoncino è troppo basso – sostiene Crudo – Fresco viene venduto a 80 centesimi al chilo, ma a queste cifre il produttore non ricava niente, perché ogni singola pianta richiede tempo e impegno e assicura una quantità di peperoncino limitata, che varia dai 300 agli 800 grammi a stagione».
Secondo Crudo un prezzo equo, in grado di assicurare un futuro alla coltivazione, oscilla tra l’euro e l’euro e cinquanta al chilogrammo. «Questa varietà di peperoncino va protetta e sostenuta, perché altrimenti tra cinque o sei anni arriveremo al punto che nessuno vorrà più coltivarlo».
Oggi i produttori sono una decina: «Come me, che ho 34 anni, ci sono altri sette od otto giovani. Abbiamo piccole aziende agricole, coltiviamo all’incirca un ettaro di peperoncino ciascuno, cercando di portare avanti una tradizione secolare tramandata dai nostri nonni ai nostri genitori e garantire che nelle cucine della zona continui ad arrivare un prodotto che da sempre viene usato moltissimo».
Per la ‘nduja, innanzitutto, ma anche per la soppressata, oppure per fare conserve e preparare le melanzane sott’olio: merito di un frutto polposo, saporito ma non eccessivamente piccante.
In quest’area, infatti, i terreni scuri sono molto fertili e il microclima favorisce un’intensa formazione di rugiada che rende quasi superflua l’irrigazione.
A Spilinga, è l’ingrediente fondamentale della ‘nduja, il salume spalmabile e molto piccante simbolo della norcineria calabrese, ma non è sufficiente per coprire l’intero fabbisogno della produzione di l’nduja locale. La polpa del tri pizzi è spessa, non si perde nella lavorazione, dà alla ‘nduja un colore rosso vivo, un profumo particolare e un gusto aromatico, piccantino e deciso, ma senza eccessi, e senza coprire i sapori della carne o lasciare il retrogusto amarognolo di molte ‘nduja di scarsa qualità.
Ma i suoi impieghi sono vari: essiccato e in polvere si miscela all’olio di oliva e un poco di aceto per trattare la superficie del pecorino del Monte Poro, proteggendo naturalmente il formaggio dalle muffe pericolose. Si usa anche per dare colore e sapore agli altri salumi locali, come la soppressata. Le proprietà antiossidanti del peperoncino conservano naturalmente le carni e consentono di produrre salumi senza additivi.
Voler assicurare un futuro al tri pizzi e agli altri 999 prodotti italiani inclusi nell’Arca del Gusto (a livello globale sono 5.327 in 150 Paesi) – non significa guardare con nostalgia al passato, ostinarsi a pensare che “un tempo” tutto fosse migliore, rincorrere un’epoca storica ormai chiusa. Da un lato, per usare le parole di Gabriele Crudo, significa «creare un’economia in questo territorio, far lavorare le persone nelle aziende agricole».
Dall’altro, è il modo migliore per preservare la biodiversità domestica, ovvero le specie selezionate da agricoltura e allevamento. Ognuna ha una caratteristica che la rende unica e importante: il peperoncino tri pizzi, ad esempio, cresce senza bisogno di irrigazione, sfruttando l’umidità notturna assicurata dal microclima di quest’area.