La rassegna, composta di 18 dipinti, sarà visitabile dal 18 febbraio al 3 giugno 2018, al Museo Luigi Bailo, museo che accoglie stabilmente 10 opere dell’artista, il nucleo pubblico più importante che di lui si conservi.
Gino Rossi è un artista “raro”. La sua produzione supera di poco i 130 dipinti, quantitativamente nulla rispetto alla produzione di altri artisti del suo secolo.
Nino Barbantini, storico direttore di Ca’ Pesaro a Venezia, ebbe a ricordare che Rossi riuscì a dipingere per pochi anni soltanto, ed è noto che una parte non trascurabile di quanto da lui creato è finita distrutta o dispersa, per effetto delle sue vicissitudini personali e familiari.
La mostra curata da Goldin, e con gli apparati critici in catalogo di Alessandro Del Puppo, unitamente a un testo di nuova concezione sul periodo bretone di Gino Rossi, scritto da André Cariou, propone ai visitatori un percorso che in modo preciso configura la vicenda artistica di “uno dei rari pittori italiani che, all’inizio del Novecento, – afferma Goldin – hanno respirato per davvero l’aria della grande pittura figurativa europea, secondo una lezione che inizialmente proviene dall’opera finale di Gauguin e dai Fauves”.
Rossi, veneziano di origine e di formazione, fu a Parigi la prima volta già tra 1906 e 1907, e lì guardò con ammirazione al simbolismo proprio di Gauguin e all’arte dei Fauves da poco rivelatasi nella capitale. Sulle orme del pittore di Tahiti, si recò quindi nel 1909 in Bretagna, che costituì per lui una grande scoperta. Di tutto questo risentono le sue prime opere connotate da un temperamento forte e da vibranti interpretazioni personali. Rossi diceva che “non si costruisce con il colore: si costruisce con la forma e un’arte dove il colore comanda è un’arte incompleta fin dalla base”. In questo si manifesta da subito quell’eco cezanniana che emergerà soprattutto nelle nature morte, ma anche in taluni ritratti, della seconda fase della vita artistica di Gino Rossi.
Da qui l’arrovellarsi del suo segno, in un espressionismo che approderà anche a una sorta di originalissima trascrizione delle ricerche cubiste, per il tramite proprio di Cézanne, sempre nel quadro di un fortissimo legame con la terra d’origine e d’elezione (Burano e i colli asolani e del Montello). Un “esprit nouveau” che lo accomuna — e lo distanzia negli esiti — alle opere dei suoi contemporanei, ma che lo rende pittore di apertura davvero europea, sperimentatore di soluzioni colme di poesia, fra ariosi paesaggi e sezionature di visi.
Uno sguardo intriso di reminiscenze d’oltralpe, che divengono assimilazione e commistione di diversi linguaggi, vero rovello della sua pittura, ma pure espressione delle sue native qualità artistiche.
“La nota interpretativa più autentica della modernità di Rossi sta nel tenace, quanto geniale, sforzo di meditate connotazioni che non andassero oltre la consistenza formale del quadro e della sua armonia compositiva. Quasi a contrastare il pericolo, da lui avvertito, di una troppo stretta identificazione fra valore cromatico e valore decorativo”.
La sua ricerca e la sua pittura virano quindi verso il cubismo e appunto il recupero di Cézanne.
Ma presto la guerra combattuta al fronte, la prigionia, le vicende familiari lo conducono verso l’abisso della malattia mentale. E poi fu solo il buio. Degli occhi e dell’anima.
Immagine:Gino Rossi, Paese sul Montello, 1913 circa, olio su cartone, cm 46,5 x 55, collezione privata. © Giuseppe Dall’Arche