Per l’industria Italiana la vera sfida è quella del cambiamento. Non quella di sopravvivere, comprimendo all’inverosimile i costi, ma quella di crescere innovando. Se non vuole precipitare nell’insignificanza l’industria Italiana deve diversificarsi, specializzarsi, elevare la qualità dei propri prodotti adeguando ad essi il processo produttivo. E per farlo deve puntare sulla tecnologia, sulla ricerca e sulla valorizzazione del proprio capitale umano. Limitarsi a difendere l’esistente mettendolo al riparo dalla concorrenza internazionale non serve a nulla, anzi ci danneggia. C’è una rivoluzione industriale in atto dalla quale non possiamo prescindere e c’è una globalizzazione dei cicli produttivi cui dobbiamo adeguarci. Tutte le principali filiere produttive, dall’auto, alla moda, all’ICT, al medicale, etc. sono del resto già oggi globali. Il prodotto finito, sia esso un’auto, un abito griffato o uno smartphone è la risultante dell’assemblaggio di componenti e di processi organizzativi, produttivi e commerciali che avvengono su scala mondiale.
E’ la globalizzazione che rende possibile tutto ciò ed è precisamente per questo che essa rappresenta un grande fatto positivo: perché ci costringe al cambiamento e alla specializzazione, perché amplia i mercati e perché, allungando la catena produttiva su scala mondiale, crea valore ed occupazione per tutti. Soprattutto, non ci sono barriere all’ingresso. Le uniche barriere sono la qualità del prodotto, l’affidabilità dell’impresa e l’efficienza della produzione. Anche la finanza che alimenta la globalizzazione produttiva non è quella speculativa ,che predilige i derivati e titoli tossici, bensì (quasi sempre) è finanza d’impresa. Nello scegliere dove eventualmente localizzare le imprese il costo del lavoro conta meno della qualità dei prodotti (il caso della Whirpool che ha scelto Varese come sede della produzione di forni elettrici ne è una conferma).
Per l’Italia essere presente in tutte queste filiere, in posizione di leader dove ci riesce o anche come semplice fornitore di componenti, è decisivo. Il che richiede apertura mentale, cultura ,flessibilità e dinamismo, tutte doti queste di cui i nostri imprenditori e lavoratori non difettano. Comunque, piaccia o no, questo processo è irreversibile e noi ci dobbiamo attrezzare per esserne protagonisti e non vittime. Come? Facendo le riforme, da quella della scuola , dell’Università e della formazione a quella della ricerca, della P.A e della Giustizia. Riforme che spetta alla politica di fare pena la crisi stessa del nostro sistema politico ed Istituzionale. Ma anche realizzando una vera e propria rivoluzione nel sistema delle relazioni industriali, cosa questa che spetta alle Organizzazioni datoriali e sindacali di fare.
Le intese da poco raggiunte in tema di rappresentanza sono importanti ma ancora insufficienti. Il nodo vero da sciogliere è quello della “partecipazione” dei lavoratori alla gestione delle imprese. O meglio, quello del passaggio da un sistema basato sull’antagonismo ad uno basato invece sulla comune assunzione di responsabilità rispetto al futuro dell’impresa. Quella di Adriano Olivetti, che concepiva l’impresa come una Comunità, non era una utopia. Era semplicemente troppo avanzata rispetto a tempi in cui fu concepita e che erano dominati dalla Guerra Fredda e segnati dalla lotta di classe. Ma oggi che la guerra fredda è finita e che anche la lotta di classe sembra attenuarsi, quell’idea può tornare d’attualità. “Comunità” vuol dire condivisione delle scelte e dei rischi che esse comportano, degli oneri come degli onori. Vuol dire, infine, condivisione dei risultati positivi e loro finalizzazione al soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori e delle necessità dell’azienda.
Non abbiamo necessariamente bisogno di andare in Germania per immaginare un sistema di relazioni industriali partecipativo. Possiamo benissimo, se lo vogliamo, tornare ad Olivetti almeno per tre aspetti fondamentali di quel sistema. Il primo è lo sviluppo del Welfare aziendale che consente di destinare una parte degli aumenti salariali legati alla buona performance aziendale al soddisfacimento dei bisogni dei lavoratori alleggerendo in tal modo la necessità che sia sempre e soltanto lo stato a doversene fare carico. Il secondo è il nesso fra aumento della produttività e aumenti salariali . Il salario deve corrispondere sempre di più ai contenuti del lavoro e la produttività è, insieme alla fatica, alla professionalità e alla responsabilità, quello forse più significativo . Premiare la produttività è il vero modo per valorizzare il capitale umano e farne il vero motore dell’innovazione e dello sviluppo dell’impresa. Infine, il terzo aspetto è la preminenza della contrattazione aziendale e, per le piccole imprese, territoriale, rispetto a quella nazionale. Alla contrattazione nazionale spetta definire il quadro generale di riferimento per la categoria e fissare i livelli minimi garantiti per tutti. Ma è alla contrattazione aziendale che spetta fare in modo che il salario corrisponda ai contenuti concreti del lavoro di ciascuno. Nell’immediato questo potrà forse creare delle differenze ma contribuirà però ad innalzare la produttività, a stimolate l’innovazione e a favorire lo sviluppo. Sarà poi compito del sindacato cercare di trasferire a tutti i lavoratori del settore le conquiste più significative fatte a livello aziendale, come del resto avveniva prima del 68,prima cioè che a prevalere fosse la concezione egualitaria e livellatrice del lavoro.
Certo, per creare un nuovo sistema di relazioni industriali è necessaria una vera e propria rottura col passato, un radicale cambio di paradigma. Non sarà facile farlo, per nessuno. Ma bisogna almeno provarci, se non per noi almeno per quei giovani a cui l’egoismo della “selfish generation” ( quella appunto che ha fatto il 68 e l 77) ha negato la possibilità di avere un lavoro stabile se non addirittura un futuro.