Tutti al lavoro, nel Governo Draghi, per rimettere ordine nel gran calderone della transizione energetica. I moniti e le ricette non mancano: dall’Agenzia internazionale per l’energia (IEA) che ha appena dettato il suo nuovo decalogo, dalla Ue che deve consolidare gli impegni internazionali contro l’effetto clima, dagli esperti che dispensano consigli e ricette a Roberto Cingolani, lo scienziato-ministro “per la transizione ecologica” che deve coordinare la corsa all’economia verde a cui è peraltro legata una parte consistente degli investimenti previsti dal Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza che si fonda sulle risorse anticrisi mobilitate dall’Europa.
Un orizzonte di obblighi ma anche di affari, incita la IEA nella sua roadmap Net Zero By 2050 fresca di pubblicazione: 30 milioni di nuovi posti di lavoro nel mondo entro qualche anno dalle energie verdi con 5mila miliardi di dollari da investire entro il 2030, capaci di regalare quasi mezzo punto in più alla crescita del Pil globale. Tutto questo spingendo l’efficienza energetica per garantire una nuova stagione di crescita tagliando però del 55% le emissioni e riducendo comunque la domanda di energia dell’8% nel 2050, con l’elettricità chiamata a coprire la metà dei consumi energetici globali. A patto, incita la IEA, di adottare misure perfino draconiane, come il divieto immediato alle nuove esplorazioni petrolifere e lo stop dal 2035 alla fabbricazione di automobili a combustione interna per rottamarle tutte entro il 2050.
Una ricetta realistica quella della IEA? Forse no. I caldi consigli dell’Agenzia andranno mediati, magari per rafforzare o perfezionare gli impegni di Parigi con i loro obblighi già faticosi. A ognuno i suoi parametri da osservare, obiettivi da rispettare. Il quando dovrà essere più chiaro molto presto. Con qualche autocritica e perfino qualche sana presa di coscienza di quel che andrebbe fatto e non si fa? O peggio, di quel che stiamo facendo e non funziona? Certamente.
Ripresa sì, ma per il verde è pallida
“Serviranno – rimarca il ministro Cingolani – 70 gigawatt di rinnovabili nei prossimi 9 anni, 8 GW l’anno, per raggiungere l’obiettivo di decarbonizzazione del 55%”. Ma intanto rischiamo il passo del gambero, come mostrano due recentissimi ed eloquenti segnali. Avverte l’Enea nella sua ultima analisi: l’indice italiano della transizione energetica (indice Ispred, che misura l’andamento dei prezzi dell’energia, della sicurezza energetica e della decarbonizzazione) sta di nuovo peggiorando.
Dopo la mazzata del Covid ecco la ripresa dell’economia, ma nel frattempo si sono decisamente impantanati gli strumenti per la corsa all’efficienza e all’energia verde, che già procedevano al rallentatore e ora rischiano perfino il congelamento. Ne è testimone Il GSE, il gestore dei servizi energetici a cui spetta il compito istituzionale di assegnare gestire gli incentivi alla produzione elettrica: a fine maggio l’ultimo bando per assegnare quelli nuovi, per 2.461 megawatt di potenza è andato letteralmente deserto. La burocrazia, che già stringeva il cappio, in tempi di Covid e post-Covid rischia di togliere ogni speranza: si fa persino più insidiosa la palude delle autorizzazioni che non arrivano e, con essa, le opposizioni dei vari comitati pseudo ambientalisti che si battono persino contro le pale eoliche, il biogas, la geotermia.
Correre ai ripari? Mario Draghi e i suoi ministri lo hanno promesso sin dalle prime ore. E tentano un’accelerazione con il nuovo decreto sulle semplificazioni e sulla governance legato proprio al Pnrr.
Buona volontà e realtà
L’impegno non manca, magari per trasformare davvero la sfida per salvare il pianeta in un’occasione non di sacrificio ma di sviluppo. Se ne rendono conto le società energetiche tradizionali. Per rimanere a casa nostra ecco i due campioni Eni ed Enel: ormai, con la liberalizzazione totale dei mercati, sono diventati competitori diretti tra loro, votandosi ciascuno anche al business dell’altro: l’Eni produce e vende elettricità anche ai clienti finali, l’Enel propone i suoi pacchetti integrati di energia e gas. Ma guardano avanti.
L’Eni non si limita più ad essere campione mondiale prima nell’esplorazione petrolifera e poi nella ricerca sui biocarburanti ma sostiene, teorizza e propaganda l’energia solare. Partecipa persino alle ricerche e alle sperimentazioni più avanzate sul fotovoltaico organico, quello che prevede sottilissimi pannelli plastici da modellare e incollare su altre superfici. Ed ecco l’Enel, per il quale la cesura e certamente meno traumatica: l’elettrificazione (dai riscaldamenti alla mobilità) è un credo della transizione energetica, anche se per dare credibilità ai proclami va completamente trasformata la generazione elettrica, concretizzando tra l’altro l’impegno (o meglio, l’obbligo sottoscritto con le istituzioni) di chiudere le ultime centrali a carbone entro il 2025, ovvero domani.
Le premesse, e le promesse, non mancano. Ma diciamo la verità: il grande calderone della transizione energetica ribolle di trappole, contraddizioni, difficoltà oggettive, proclami velleitari, perfino errori clamorosi. Ecco qualche esempio tra i più emblematici e insidiosi. Al di là dello strano problema della burocrazia che ingurgita richieste, cavilla, impantana, oppone, e mostra barlumi di vera efficienza solo quando ricorre persino ai tribunali quando qualcuno rischia di averla vinta. Al di là delle promesse e delle velleità sulla rapida diffusione della mobilità elettrica senza riuscire a costruire una credibile infrastruttura di ricarica nel territorio: le colonnine in autostrada, ad esempio, stanno facendo la loro comparsa solo adesso.
Neutralità tecnologica ignorata
Chiunque abbia una cognizione minima delle discipline ambientali concorda (a parole) su un principio inderogabile. Ogni strategia che punti a massimizzare i risultati, sia dal punto di vista strettamente ambientale che da quello (irrinunciabile) delle compatibilità economiche, non può che fondarsi sul principio della neutralità tecnologica. Promuovere o frenare a priori questa o quella tecnologia, o peggio incentivarne a pioggia qualcuna vietandone altre, è un errore diffuso, soprattutto da noi. La strada corretta? Fissare obbiettivi, limiti, vincoli, lasciando libere la scienza e l’industria di trovare le migliori soluzioni. E invece no. Il dirigismo ascientifico impera. Due esempi: l’assoluta demonizzazione del motore diesel a favore non dell’elettrico ma (intanto) dei motori a benzina; il mito dell’idrogeno dietro l’angolo.
Sono migliaia italiani che hanno calibrato la loro scelta anche recente di comprare un’automobile diesel sull’onda di due documentate evidenze: il vantaggio di efficienza complessiva anche in termini di consumi e quindi di esborsi che il diesel continua a garantire, gli enormi progressi nel taglio delle emissioni dei motori diesel Euro 6 di ultima generazione. Niente da fare.
Errori di valutazione
Forti degli errori di valutazione di altri paesi europei (la Germania per prima) anche da noi le amministrazioni locali che si auto-propagandano virtuose continuano a consentire la circolazione abituale dei vecchi diesel pre-Euro6, ma nelle giornate dei blocchi ambientali liberano tranquillamente non solo le auto a benzina di ultima generazione ma anche i motocicli inquinanti, bloccando con il massimo rigore i recentissimi diesel che in molti casi inquinano meno dei migliori motori a benzina anche sul versante, tradizionalmente critico per la combustione a gasolio, degli ossidi di azoto e del particolato. Accade ad esempio a Roma, dove la sindaca Raggi vorrebbe addirittura il blocco totale e perenne del diesel (esclusi però gli autobus, che sono gestiti dal Comune). Risultato: i cittadini stanno frenando gli acquisti del diesel super-puliti creando vistosi problemi di equilibrio al mercato, con effetti persino controproducenti per l’ambiente.
Incentivare intanto la ricerca e le applicazioni dell’idrogeno, come ha in programma il governo? Nulla di male, naturalmente. Ben sapendo però che i problemi tecnici e le compatibilità economiche di questa soluzione tracciano un orizzonte lontano, forse molto lontano. Anche e soprattutto per le compatibilità economiche. Anche qui ci mette lo zampino la negazione del principio della neutralità tecnologica: perché non dirigere l’incentivazione a monte, alla tecnologia del “power to gas” , ovvero a tutti i possibili prodotti della trasformazione dell’elettricità in vettori energetici alternativi (o meglio, complementari) alle batterie o ai pompaggi idroelettrici, compresa la possibilità di creare non solo idrogeno ma anche metano sintetico. Una soluzione probabilmente più produttiva in una fase storica di transizione, considerando la possibilità di “alimentare” intanto in maniera più verde le tecnologie e gli appararti di oggi.
La filiera fantasma
Promozione dell’energia verde significa regole chiare e sufficientemente semplici nella loro applicazione. Ma significa, prima ancora, intelligenza di sistema, capacità di produrre quel che conviene in patria e di selezionare comunque le soluzioni più economiche ed efficienti nei mercati globali. Esattamente il contrario di quel che abbiamo fatto. Quel che è accaduto con il fotovoltaico italiano, sull’onda di ben cinque edizioni del cosiddetto “conto energia” (il meccanismo di incentivazione che prevede il ritiro dal gestore pubblico dell’energia verde prodotta dai privati strapagandola) ha prodotto corse speculative indiscriminate, con l’istallazione di apparecchiature (pannelli e elettronica di controllo) di provenienza orientale senza alcun efficiente sistema di certificazione sulla qualità e quindi sull’efficienza nel tempo. Risultato: una corsa alle speculazioni a breve per realizzare profitti in pochi anni abbandonando poi tonnellate di materiale esausto. Tanto da regalare all’Italia l’ennesimo primato boomerang: comincia a non essere semplice lo smaltimento e il riciclo di questo materiale.
Un sistema di validazione e certificazione efficiente avrebbe dato spazio anche alla produzione italiana? Emblematico l’esempio di Solsonica, la fabbrica di pannelli solari nell’alto Lazio sorta sulle ceneri dei vecchi stabilimenti della Texas Instruments. Lavorava sulla qualità. E’ stata messa alle strette dall’assalto orientale anche a colpi di ferraglia a costi ridotti e qualità che non vale comunque il prezzo.
Comunità energetiche da liberare
Alle comunità energetiche, ovvero gruppi di produttori e allo stesso tempo consumatori di energia (prosumer) gli esperti nonché le nostre istituzioni affidano un ruolo chiave nel nuovo sistema energetico che si va costruendo all’insegna del verde. La micro generazione e la generazione diffusa saranno – si promette – un elemento di equilibrio del sistema energetico generale. Si promuoverà addirittura un ruolo “consortile” delle automobili elettriche come accumulatori che collegati in rete fanno da polmone per la stabilità del sistema elettrico generale, distribuendo naturalmente a tutti i benefici, anche con sconti aggiuntivi sui costi finali dell’energia per i singoli cittadini che parteciperanno al gioco. Ma che ci sia molto ancora da fare per costruire una normativa coerente che possa incentivare questo scenario, è sotto gli occhi di tutti gli esperti.
Le comunità energetiche sono già normate, ma in maniera ancora rudimentale, largamente imperfetta. Le regole sono improntate a un grande dirigismo. Basti pensare, solo per fare un esempio delle tante cose che meriterebbero qualche correzione, che qualunque istallazione personale o consortile di impianti fotovoltaici (il casale in campagna, il condominio) se integrata con la fornitura pubblica è obbligata ad una connessione perenne a quest’ultima, assolutamente pregiudiziale al suo funzionamento. In altri termini: se e quando il contatore del gestore di energia non alimenta la rete, il nostro impianto fotovoltaico personale o consortile va istantaneamente fuori servizio.
Le giustificazioni a un vincolo di questo genere sono molte, e in parte oggettive: la connessione gode di una serie di incentivi non solo per la realizzazione ma anche dello scambio di energia con il gestore pubblico, che deve avere il controllo di tutto il sistema di scambio in ogni suo aspetto. Fatto sta che questo schema impedisce la creatività e flessibilità nelle realizzazioni degli impianti fotovoltaici personali. Non solo: impedisce nei fatti di allestire un sistema che possa garantire la continuità dell’alimentazione anche quando la rete elettrica pubblica dovesse andare in avaria anche temporanea (backup) o avesse più semplicemente dei problemi di stabilità di linea, cosa che nel nostro paese continua a succedere in una parte consistente del territorio extraurbano.
Neutralità tecnologica, filiera industriale, vere facilitazioni all’autoproduzione: se ne parla abbastanza? Forse no. Solo per fare, appunto, qualche esempio dei tanti tasselli che mancano per accelerare davvero lo scenario della transizione energetica.