Accelerazione, sburocratizzazione, programmazione. Sono le tre parole chiave dei processi di transizione ecologica ed energetica che rivoluzioneranno le economie mondiali. L’Italia vuole dare il suo contributo per centrare gli ambiziosi obiettivi europei: riduzione del 55% delle emissioni di Co2 entro il 2030 e neutralità carbonica entro il 2050. Per farlo, il nostro Paese ha deciso di puntare su due armi: il ministero della Transizione Ecologica guidato da Roberto Cingolani e i fondi provenienti dal Recovery Plan, ormai vicinissimo al via libera Ue.
Può essere una rivoluzione o rivelarsi un flop. Vediamo allora cosa è cambiato e quali possibilità ha la strategia del governo Draghi di realizzare le promesse e imprimere una svolta verde al mondo dell’energia.
Il ministero della Transizione ecologica
Il ministero della Transizione ecologica (Mite) sostituisce il ministero dell’Ambiente e accentra in un unico luogo competenze chiave che in precedenza erano in capo al ministero dello Sviluppo Economico: dall’esercizio dei diritti di azionista nei confronti di Gse all’approvazione della disciplina del mercato elettrico e del gas naturale, passando per i criteri di incentivazione dell’energia elettrica da fonte rinnovabile e l’esercizio delle competenze relative alla concorrenza e alla regolazione dei servizi di pubblica utilità nei settori energetici. In linea con la nuova strategia, il 17 giugno 2021, il consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge che ha rafforzato i poteri del ministero della Transizione ecologica per accelerare la realizzazione delle opere previste nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e snellire le procedure.
Il provvedimento prevede l’assunzione di 218 laureati e 200 tecnici, ma anche l’istituzione di un dipartimento per il Pnrr. Si tratta di una struttura che ha a disposizione due direzioni generali che dovranno seguire passo passo l’attuazione del Recovery Plan e rendicontare il modo in cui saranno utilizzati i fondi europei. Il ministero avrà anche la possibilità di “farsi aiutare” dai tecnici di Enea e Ispra per “l’espletamento delle attività tecniche e scientifiche correlate all’attuazione del Pnrr”, si legge nel testo. Al ministero spetterà infine il compito di controllare che i fondi a disposizioni siano spesi tutti e bene, garantendo il rispetto delle regole stabilite in sede Ue.
La stessa strada, d’altronde, è già stata battuta da altri Paesi come Francia, Spagna, Germania, Svizzera e Costa Rica che negli anni hanno creato ministeri dedicati alla transizione ecologica ed energetica. Un esempio su tutti: in Francia il ministero della transizione ecologica, nato nel 2018, è guidato dalla ministra Barbara Pompili che si occupa di trasporti ed energia. In un’intervista all’Espresso Pompili ha spiegato che “l’ecologia è positiva per l’economia. Le aziende che non colgono il cambiamento spariranno. Ne usciranno vincitrici quelle che si immaginano attori della transizione e creano nuovo impiego, nuove filiere”.
L’ostacolo burocrazia
“Ci vuole un’accelerazione iniziale che ci deve mettere in carreggiata con la giusta velocità per i primi cinque anni, ne abbiamo 25 dopo, ma non ci sarà un Recovery Plan”, ha spiegato il ministro Cingolani in un’intervista rilasciata alla Stampa. Utilizzare male la pioggia di finanziamenti provenienti da Bruxelles fino al 2026 è un privilegio che l’Italia non può permettersi. Per questo motivo, il primo passo da fare è quello di intervenire sulla burocrazia, un male in apparenza incurabile che affligge il nostro Paese e scoraggia gli investimenti, rallenta i provvedimenti, ostacola la crescita. “Secondo i nostri calcoli dobbiamo arrivare a circa il 70% di energia prodotta da rinnovabili entro il 2030, 70 miliardi di Watt rinnovabili nei prossimi 9 anni. Significa tra i 7 e gli 8 Gigawatt all’anno e nell’ultimo anno ne abbiamo installati 0,8. Dobbiamo moltiplicare per 10 la nostra capacità. O si fa quello che abbiamo scritto o siamo costretti a uscire dall’accordo di Parigi, non abbiamo altra soluzione”, ha chiarito Cingolani parlando ai microfoni di Mattino 24. Districare il marasma burocratico esistente è dunque una necessità primaria, una sfida ancora più difficile da vincere rispetto a tutte le altre. Ma senza sburocratizzazione non può esserci alcuna transizione ecologica o energetica.
Il Recovery Plan e i fondi per la transizione
Allo scopo di accelerare sulla rivoluzione e la trasformazione verde, il Pnrr ha stanziato 59,5 miliardi di euro, cui si aggiungono 1,31 miliardi di risorse previste dal piano React-Eu e 9,16 miliardi provenienti dal Fondo complementare. Complessivamente, dunque, si arriva a quasi 70 miliardi di euro (su 209 totali) da spendere per modificare i paradigmi dell’economia italiana in chiave sostenibile e impostare le fondamenta su cui erigere la tanto agognata crescita che in Italia non si vede da decenni.
“Il Pnrr pone le basi per economia circolare, agricoltura avanzata, efficientamento energetico degli edifici, nuove fonti di energia, politiche sull’idrogeno, mobilità elettrica, dissesto idrogeologico, mari e ciclo dell’acqua”, ha riassunto il ministro della Transizione Ecologica. Le voci di spesa inserite nel Recovery Plan sono ambiziose e variegate. Si va dai quasi 24 miliardi destinati alla transizione energetica e alla mobilità sostenibile ai 15,2 miliardi per il superbonus 110%. Ulteriori 15 miliardi andranno alla tutela del territorio e dei mari, 30 milioni alla cultura ambientale, 140 alle green community e via dicendo. Tra gli obiettivi principali del piano c’è quello di raggiungere entro il 2030 una soglia pari al 72% di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili (eoliche o fotovoltaiche), un capitolo che include anche l’idrogeno verde.
Il ruolo dell’industria
Se il Governo ha predisposto le linee guida e le riforme, spetterà ai colossi industriali italiani il compito di trasformare in realtà quanto scritto su carta. Dopo l’approvazione da parte della Commissione Ue del Recovery Plan italiano, prevista per il 22 giugno, e l’arrivo dei primi fondi (circa 25 miliardi di euro), dalle parole si dovrà passare ai fatti e i “campioni italiani” avranno un ruolo centrale. Non a caso, lo scorso 13 aprile, il Premier Mario Draghi e il ministro Roberto Cingolani hanno incontrato i Ceo di Stellantis, Enel, Eni, Snam e Terna per parlare di energia, transizione energetica e soprattutto mobilità elettrica. In questo contesto, a fare la parte del leone sarà per forza di cose Enel, colosso nazionale dell’energia che ha già presentato “idee per investimenti per circa 27 miliardi nel periodo previsto dal piano”, ha annunciato il Ceo dell’azienda, Francesco Starace, nel corso dell’EY Summit Infrastrutture “Transizione digitale ed energetica”. Sono interventi, ha aggiunto il manager, concentrati sulle reti di distribuzione energetica e sull’elettrificazione dell’economia. Quanto poi “noi riusciremo a fare dal punto di vista del risultato lo vedremo nel 2022-23”, ha concluso. Tutto dipenderà dalla velocità e dal modo con cui l’Italia riuscirà a perseguire i suoi obiettivi. Ognuno dovrà fare la sua parte.