A Palinuro è accaduta una tragedia, sono morti quattro ragazzi che amavano il mare. Sono morti in un posto bellissimo ma insidioso. Io conosco quella grotta e conosco tante altre grotte di quel braccio di mare che la leggenda vuole abbia inghiottito anche il nocchiero di Enea. Se ne contano ben trentacinque di grotte intorno al promontorio di Capo Palinuro, tutte tra il porticciolo che sta appena prima del Capo e la prima spiaggia praticabile detta del Buondormire, quella breve lingua di sabbia che si stende di fronte allo Scoglio della Marina, da tutti conosciuto come l’Isola del Coniglio.
Ogni immersione in quella zona è fantastica, un trionfo di colori e di vita anche a pochi metri di profondità. Perché dunque la tragedia? Che cosa è andato storto? Faccio fatica a credere che ci sia stata improvvisazione, imprudenza, c’era un istruttore sub esperto e anche una guida locale, un’accoppiata in grado di garantire una adeguata sicurezza all’escursione e una esperienza sul campo sufficiente per affrontare una grotta che fa parte del circuito turistico più classico, seconda solo alla grotta azzurra e alla grotta delle cattedrali che sono tra le più visitate e fotografate.
Anche la grotta d’argento e quella del sangue sono ricercate per i colori e quella del presepe per le caratteristiche concrezioni, ma la grotta degli occhi è un immersione da non mancare, neppure impegnativa. E’ vero, la grotta degli occhi ha tre aperture, due alla stessa quota, e sono quelle che permettono i migliori effetti fotografici, l’altra, la terza, è più in profondità, ma non ha una vasta stanza di espansione e una cupola a volta come si osserva negli ingressi superiori, è un budello più angusto, più lungo e più buio, giuro poco invitante, ma nella volta, alla fine ha una apertura che si reimmette nella camera superiore. In quel maledetto budello, però, il fondo è fangoso, sedimenti che si sollevano al solo vibrar delle pinne e rendono praticamente nulla la visibilità.
E’ per questo che di lì, in genere non si passa. Qui è bene chiarire che una torcia accesa sul fango o sulla sabbia sollevata al passaggio di un gruppo di sub gioca un ruolo perfino negativo per effetto della rifrazione della luce che si moltiplica al turbinare del pulviscolo e purtroppo in quelle condizioni non si ha la freddezza di attendere, nella immobilità più assoluta, che i sedimenti si ridepositino consentendo alle torce di far capire dove è il passaggio. Ci vogliono minuti, più d’uno, fatti di 60 secondi, non attimi, per tornare a vedere, perché il pulviscolo si depositi e l’acqua torni ad essere trasparente. Non possiamo poi ignorare che una torcia ha una gittata “limitata” e solo in condizioni ottimali di ambiente, cioè non va oltre alcuni metri e con un fascio mirato e concentrato che non si allarga, il campo illuminato è poco più grande di quello che fuoriesce dalla lampada, una trentina di centimetri, non è esattamente come accendere la luce in una stanza. E sempre che la torcia sia ben carica.
Noi non sappiamo quante fossero le torce, forse non tutti ne avevano una, succede di affidarsi a quelle degli altri, per scelta o per portare con sé un altro oggetto, in alternativa, come una macchina fotografica, o semplicemente per avere le mani libere per agire meglio sul GAV, il secondo erogatore o sulle attrezzature di controllo, profondimetro, orologio, manometro e tabelle di decompressione. Sicuramente, ce lo hanno detto, non avevano con sé il filo di Arianna, un banale rocchetto da srotolare man mano che si procede in avanti e che assicura il percorso inverso, una mancanza però che non riesco ad immaginare come una trascuratezza, come una dimenticanza, una imprudenza. Non c’era, secondo me, perché per quell’immersione, per come era stata programmata, forse, non serviva.
Poi si è fatto altro, si è andati in un posto dove quell’aggeggio invece sarebbe tornato utile. Perché si potrebbe esser fatto questo altro noi ancora non sappiamo, il capocordata non sempre è il primo della fila, le posizioni spesso cambiano, per qualcuno che si attarda o qualche altro che va in avanscoperta pur non essendo compito suo, succede, si possono creare scollegamenti fra il gruppo e non ci si trova più a vista oppure si determina una eccessiva concentrazione di sub in posti troppo angusti, ci si intralcia a vicenda e ricevere una pinna in faccia da chi ti precede, è cosa che accade non di rado, ti si allaga facilmente la maschera, significa non vedere più nulla, e svuotare dell’acqua una maschera sotto l’acqua si può, ma bisogna saperlo fare, e averlo già fatto in condizioni tranquille, lì sotto può diventare complicato, difficile se non impossibile per i meno esperti.
Insomma è probabile che qualcosa che non si voleva fare si è fatto e nel corso dell’immersione la comunicazione è solo quella essenziale, a gesti, diventa difficile riprendere qualcuno che si avventura da una parte sbagliata e gridargli “torna indietro!”. Da ultimo l’aria, abbiamo letto sciocchezze incredibili sull’argomento, per qualcuno era finito l’ossigeno, e stendiamo un velo pietoso, per altri c’era aria solo per un certo numero di minuti, e non per tutti uguale, e pure questa non la commentiamo, commentiamo invece qualcosa che conosciamo, il panico che ti prende di fronte a quello che non conosci, che non ti aspetti, il panico che è contagioso lì sotto, il panico che non governi perché smetti di ragionare.
Ecco, le tabelle mi dicono che un’immersione in curva di sicurezza, che non richiede decompressione, a trenta metri di profondità non può superare i 25 minuti, bene, l’esperienza mi dice che una immersione simile di 25, 30 minuti richiede sempre almeno un briefing di programmazione per un tempo pari almeno al doppio di quello dell’immersione, e a maggior ragione se si è in gruppo, se non tutti si conoscono fra loro e non sono scesi altre volte insieme. La norma dice, mai da soli in immersione, mai in troppi nelle grotte, sempre una giusta proporzione tra esperti e neofiti, e poi tanta tanta programmazione. Raccontiamocela prima, a terra, questa immersione, diciamo cosa faremo, dove, chi, come. E magari, terminata la programmazione, intorno ad un tavolo, non in barca un attimo prima di azzerare gli orologi, si ripete, con pazienza, da capo, quello che faremo.
Abbiamo voluto commentare questa triste notizia, non nell’immediato, abbiamo aspettato anche noi che il fango si ridepositasse sul fondo, e si potesse vedere meglio. Capire meglio. Poi le impressioni restano impressioni. E’ vero che non si muore per caso, c’è sempre una ragione, e qualche volta, non sempre, magari c’è anche una colpa. Ci sono ancora troppo pochi elementi, almeno fin qui, per dire che cosa è accaduto a quattro giovani che amavano il mare, nelle acque di Palinuro, lo stesso nome che è stato dato alla seconda nave scuola dei velieri della marina militare. Si, perché si va a scuola, per andare per mare.