Potrebbe essere soltanto lo zelo dello scrivano ministeriale, ma è invece l’indizio di una cultura arcaica, ben radicata tra gli italiani.
La definizione di “congiunti” contenuta nel Dpcm del 4 maggio 2020 era questa:
«Sono consentiti gli spostamenti per incontrare esclusivamente i propri congiunti, che devono considerarsi tra gli spostamenti giustificati per necessità» e, a parte la sintassi traballante, precisa: «L’ambito cui può riferirsi la dizione “congiunti” può indirettamente ricavarsi, sistematicamente, dalle norme sulla parentela e affinità, nonché dalla giurisprudenza in tema di responsabilità civile. Alla luce di questi riferimenti, deve ritenersi che i “congiunti” cui fa riferimento il Dpcm ricomprendano: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)».
La scelta stessa della parola “congiunti” rivela la distanza dal lessico moderno e noto alle moltitudini. In Francia – che differenza – dall’11 maggio si incontrano «parenti e amici», punto e basta. Presto succederà anche da noi, ma vale la pena di soffermarsi sulle italiche distinzioni, proprio perché rivelatrici di una cultura più oppressiva e meno liberale.
Tanto valeva adottare una norma neutrale come quella delle targhe alterne, pari e dispari, come nella crisi petrolifera del 1973? No, l’insistenza sui “congiunti” è tutt’altro che neutrale, rivela la visione di una società ordinata secondo il sangue e terra, il Blut und Boden caro a Goebbels, ereditato dagli italici leghisti e diffuso tra milioni di italiani. In questa visione saremmo legati ai parenti biologici e affini ma non agli amici, ai compaesani ma non agli stranieri né ai compagni di lavoro o ai vicini di casa. È una cultura razzista, buona per i tempi antichi, ma superata dalle relazioni libere e magari fluttuanti creata, nella teoria, dal motto rivoluzionario del 1798 «liberté, égalité, fraternité» e, nella pratica, dalla rivoluzione industriale che ha bisogno di una società aperta e democratica.
Nel secolo Ventunesimo siamo immersi nella globalizzazione, che apre tutte le porte del mondo, rifarsi al “sangue e terra” equivale a negare l’evoluzione delle relazioni umane e a contrastare le affinità personali, con la pretesa di disciplinare le abitudini private. In suo nome, e nel terrore del disordine, si vieta l’adozione alle coppie omosessuali, si rovesciano prescrizioni sui cittadini come fossero bambini da “raddrizzare” o oggetti da mettere in ordine sugli scaffali.
L’episodio dei “congiunti” nel Dpcm è la perla di una collana tradizionale di censure e veti che penetrano nelle vite private, partoriti dalla mentalità da Stato etico – e non democratico – che ripropone puntualmente di resuscitare i bordelli, che adora la censura, che ha punito penalmente l’adulterio femminile fino al 1968 e cullato il delitto d’onore fino al 1981, che ostacola la scelta di quando e come chiudere la vita terrena in caso di estrema sofferenza, che perpetua le differenze di genere in casa, dove faticano soprattutto le donne, o al lavoro dove l’accesso e la disparità salariale femminile sono i più vergognosi d’Europa.
Lo Stato etico è lì in agguato, pronto a limare la responsabilità personale che sottrae potere ai potenti e controllo ai controllori (e lascia inoperosi gli scrivani ministeriali). La seconda metà del Novecento ha demolito a picconate lo Stato etico nel mondo occidentale in un trionfo che nel 1969 il primo ministro canadese Pierre Trudeau sintetizzava nella frase memorabile «Non c’è più posto per lo Stato nelle camere da letto». Ma gli adepti del sangue, della terra, dello Stato etico non mollano e ora ci stanno addosso, pronti a dettare le regole per la convivenza di domani, dopo il disastro del Covid 19.
Ogni pandemia è traumatica, lo racconta la storia e lo dicono i saggi (che si imporranno presto «mutamenti dei comportamenti individuali, di abitudini sociali» lo ricorda ai lettori di FIRSTonline Salvatore Rossi, presidente di TIM). Dopo le peste del Trecento, con la popolazione europea pressoché dimezzata, la carenza di manodopera ha permesso ai contadini di contrattare il proprio salario e la necessità demografica ha consentito alle donne di sposarsi senza il consenso del signore feudale. Un secolo fa, la strage di maschi della Grande guerra e la devastazione dell’influenza spagnola hanno stravolto il mercato matrimoniale, dominato dai pochi maschi sopravvissuti e lasciato milioni di giovani donne sole e senza figli.
Che cosa succederà dopo la pandemia non si sa, e gli esercizi profetici sono poco credibili perché prediligono le tinte fosche e si concentrano sullo scenario economico. Certo, i fattori economici plasmeranno la società nuova, ma se partiamo già zavorrati dai pregiudizi che limitano le libertà di relazione e di azione, resteremo prigionieri della testolina da scrivano ministeriale. Concentrare l’attenzione sul Pil è fuorviante, come spiega bene David Pilling nel suo libro sull’illusione della crescita, proprio perché trascura ogni altro aspetto della convivenza civile. Sarebbe utile riflettere sul valore e la potenza delle relazioni personali, della fiducia e della solidarietà: il sondaggio condotto a Oxford da Timothy Garton-Ash rivela che il 53 per cento dei giovani europei auspica un potere forte per far fronte alla crisi climatica e sfiducia la democrazia un po’ anarchica, un po’ individualista ma soprattutto inefficace che ha davanti agli occhi. Inefficace perché ancorata agli schemi del passato, e uno di questi schemi include a viva forza la disciplina delle relazioni umane. Di solito la società italiana si sorprende, è presa in contropiede dai cambiamenti: nel 1970 all’avvento del divorzio si prospettava la catastrofe di milioni di mogli abbandonate, ma da allora in poi sono le mogli in maggioranza a chiedere la libertà. Sotto l’ombrello dello Stato etico prosperano gli scrivani ministeriali, ma quell’ombrello, irrigidito sui modelli del passato e sui pregiudizi dei bisnonni, va chiuso, evitato come un virus, perché la ripresa della vita civile dopo la pandemia ha bisogno di aria fresca e di fantasia creativa.