Il suggerimento più interessante dell’articolo del prof. Andrea Gilardoni che il 20 giugno ha aperto su Firstonline il dibattito sul futuro delle infrastrutture in Italia sta nell’individuazione nelle tecniche di analisi costi-benefici (ACB) di una caratteristica non più rinunciabile nell’analisi, nella progettazione e nella realizzazione di qualsivoglia concetto di sostenibilità: la “diffusione” e la trasversalità delle scelte infrastrutturali in termini di impatti economici, sociali ed ambientali.
Ogni decisione o piano infrastrutturale, con particolare riguardo alle “grandi” infrastrutture, ha effetti diffusi sull’ambiente, sul territorio e sulle attività produttive che non possono ridursi al mero esame della redditività e dell’efficienza interne dell’opera. Benché soggetta inevitabilmente a scelte di metodo con qualche grado di soggettività, l’ACB si presta a cogliere la complessità crescente del rapporto tra infrastruttura e “ambiente circostante”, anche in riferimento all’analisi delle “scelte in competizione”.
Dovrebbe trovare il favore dell’industria, quindi, ogni proposta tendente a promuovere l’ACB nella valutazione di efficienza e fattibilità delle infrastrutture; vorremmo fare, anzi, un passo avanti, nel prospettarne (con la necessaria progressività e flessibilità) l’adozione obbligatoria, a ogni livello di pubblica amministrazione responsabile delle scelte e delle autorizzazioni, purché questo non comporti l’allungamento dei processi decisionali ma ne rappresenti, al contrario, la “guida” e la legittimazione di scelte che, una volta assunte, dovrebbero essere realizzate senza ritardi.
Con un’avvertenza: è necessario distinguere tra infrastrutture “a finanza necessariamente pubblica” (opere propriamente pubbliche, benché realizzate con schemi di finanza privata, che per il contenuto di esternalità non possono essere finanziate dagli utilizzatori diretti) e infrastrutture che, pur con elevato contenuto “sociale” ed elevato impatto ambientale, hanno caratteri di “beni privati”, tipicamente rivolte alla produzione di beni di mercato anche quando fortemente regolamentati.
Per la prima categoria, che non esaustivamente include grandi opere infrastrutturali di trasporto, bonifica e valorizzazione del territorio e delle risorse naturali e infrastrutture di comunicazione “fuori mercato” (cablaggio e diffusione wireless per il trasferimento a banda larga), non vi è dubbio che l’adozione (finanche obbligatoria) dell’ACB ad ogni livello sia consigliabile e condivisibile; la stessa difficoltà di cogliere e valutare le esternalità richiede un approccio “organico” e complessivo che solo l’ACB è in grado di fornire.
Per la seconda categoria (infrastrutture energetiche, per la gestione dei rifiuti, almeno in parte idriche, quelle per le quali, molto sinteticamente, si presume una fruizione individuale “a tariffa”) l’adozione di tecniche ACB deve essere opportunamente chiarita e delimitata: in questa classe di opere è lecito, o almeno auspicabile, che la finanziabilità sia assicurata e garantita, al netto dell’inevitabile rischio industriale, dai flussi di ricavi corrispondenti al pagamento del “prodotto finale” avente caratteristiche economiche di bene privato (l’energia, l’acqua, l’igiene ambientale entro certi limiti). Si tratta di infrastrutture il cui costo, in altri termini, deve essere “auto-sostenuto” dal consumo del bene collegato ovvero dall’uso dell’infrastruttura.
L’ACB qui è in principio sovrabbondante: le scelte di investimento sono realizzate da agenti privati e razionali in grado di apprezzarne costi e benefici con gli strumenti classici della valutazione aziendale.
La “tenuta” e la coerenza sociale e pubblica degli investimenti in infrastrutture idriche, energetiche ed ambientali dovrebbe essere garantita dall’internalizzazione, nei segnali di costo e prezzo a disposizione delle imprese, degli effetti esterni dell’installazione dell’opera e della sua produzione.
Condizione necessaria per ritenere sovrabbondante dell’ACB è, beninteso, che le esternalità siano correttamente considerate: qui possiamo dire che il quadro di riferimento, almeno in teoria, tende ad assistere efficacemente le scelte attraverso due principi cardine comunitari (e globali) ormai affermati:
• dal lato dell’offerta, l’integrazione dei costi esterni (ad es., gli schemi di inclusione del costo sociale dei gas serra nel costo di produzione, e nel prezzo finale, dell’energia)
• dal lato della domanda, il “chi usa, ed inquina, paga”.
In altri termini, se tutti i costi valutabili sono inclusi nel prezzo del servizio o del bene finale, l’ACB è “implicitamente realizzata” con la massima efficienza attraverso scelte imprenditoriali informate. Altro è, beninteso, la verifica di tenuta ed applicazione delle menzionate precondizioni (è noto che, in Italia, il prezzo – o la tariffa – dell’acqua non riflette i costi ambientali, né contengono segnali di lungo termine per il sostegno degli investimenti), ma in questa sede vale sottolineare il principio.
L’uso dell’ACB è quindi superfluo nei settori “a mercato” o, per meglio dire, nei settori in cui la necessità dell’apporto di capitali privati ne consiglia l’orientamento al mercato a condizione che gli investimenti siano recuperabili? Naturalmente no, l’ACB aiuta ed assiste anche in questi casi, ma se utilizzata a livello “globale”, di scelta complessiva di policy, piuttosto che di discrimine tra “fare e non fare” a livello di singolo impianto o singola infrastruttura.
Per chiarire è illuminante il “caso rifiuti”: vista l’attuale e perdurante carenza infrastrutturale che tanti danni arreca al paese e ai cittadini, è naturale, giusto e consigliabile che le autorità “si chiedano” qual è il migliore mix di tecnologie e di politiche da adottare per risolvere il problema ed eliminare la carenza. Una volta effettuata tale riflessione, che certo può essere condotta globalmente con le tecniche ACB e che può (dovrebbe) produrre indicazioni ed incentivazioni verso la soluzione socialmente preferita, le scelte sono “a carico” dell’industria, che ha i suoi strumenti per valutare la convenienza dell’investimento e lo decide in autonomia, data la struttura di vincoli ed incentivi.
Possiamo affermare con buona fiducia, per calare il ragionamento nella concretezza dei numeri citati nell’articolo, che le decine di miliardi necessarie per risolvere le emergenze ambientali, correnti e future, nei settori dei servizi pubblici locali più esposti (acqua e rifiuti) difficilmente sarebbero mobilitati dall’applicazione dell’ACB nella valutazione dei progetti infrastrutturali; tale mobilitazione può solo avvenire a partire da scelte di investimento razionali di soggetti imprenditoriali che possano muoversi in un quadro di regole chiare e certe, funzionali al raggiungimento degli obiettivi che una ”analisi globale” delle necessità può fissare inizialmente per poi lasciare al meccanismo di mercato la realizzazione del disegno.
Vorremmo chiarire che la dimensione “privata” della scelta non vieta, naturalmente, forme “miste” (pubblico-private) di finanziamento dell’opera. Il confine tra le due grandi classi di infrastrutture esaminate non sta esattamente nella natura pubblica o privata del capitale, benché tale natura offra una buona regola d’identificazione: la prima classe “chiama” la finanza pubblica (che ne costituisce i presupposti in termini di logica economica), mentre nella seconda “prevale logicamente” la finanza privata, senza per questo che ne venga esclusa quella pubblica. In breve, la finanza pubblica è condizione necessaria e sufficiente per avere infrastrutture pubbliche, mentre la finanza privata è condizione sufficiente, ma non necessaria, per ritrovarsi nella seconda classe.
Oltre alla valutazione globale delle politiche, l’ACB nelle infrastrutture energetiche ed ambientali ha anche un altro ruolo, forse ancora più importante: “calata” nel contesto della singola scelta impiantistica, senza rivestire caratteri di necessità o obbligatorietà, può accompagnare il processo di accettazione sociale dell’opera. In altri termini, nella necessaria condivisione della necessità e bontà dell’infrastruttura tra il soggetto che la realizza, le autorità ed il pubblico, l’opzione ACB può essere uno degli strumenti decisivi di sostegno all’accettabilità di opere che vengono spesso discusse e contestate “per definizione”, senza che alcuno, incluse le autorità che quelle opere autorizzano, esamini e diffonda analisi quantitative sugli effettivi benefici commisurati ai costi.
Parliamo anche di costi sociali e politici che vanno, certo, valutati, con ciò che questo comporta in termini di razionalizzazione e quantificazione di elementi e “pulsioni” spesso veicolati da linguaggi reciprocamente incomprensibili (quello dell’impresa, quello della “politica”, quello del “popolo dei comitati”). E qui sta la sfida per gli operatori che non devono mettere in discussione gli strumenti di valutazione tecnico-economica “interna”, ma devono accettarne una complicazione includendo costi e svantaggi “esterni” alla sfera dell’impresa; sfida che vale a maggior ragione per gli studiosi, chiamati ad includere nell’ACB dimensioni di difficile lettura.
* Presidente di Hera