Ricordate il dibattito sulla destinazione del TFR, il Trattamento di Fine Rapporto dei lavoratori dipendenti? La questione si è posta per la prima volta nel gennaio 2007, quando, con l’entrata in vigore del decreto legislativo 252/2005, i lavoratori si sono trovati di fronte alla scelta se lasciare il TFR in azienda oppure investirlo in un fondo pensione negoziale (il cosiddetto secondo pilastro della previdenza italiana).
Le cose si sono complicate ancora di più quando la legge Finanziaria 2015 ha introdotto, in via sperimentale fino al 30 giugno 2018, la possibilità di richiedere l’erogazione mensile del TFR in busta paga, sottoponendolo alla tassazione ordinaria. Ma questo è un altro discorso, che affronteremo in un’altra sede. Per ora concentriamoci sulla scelta tra azienda e fondo pensione negoziale.
A distanza di 10 anni dall’entrata in vigore del decreto, quale è stata la scelta migliore?
La simulazione
I numeri parlano chiaro. Il Sole 24 Ore, grazie ai dati forniti dal fondo pensione territoriale Solidarietà Veneto, ha realizzato una simulazione analizzando il portafoglio di un investitore che 10 anni fa ha deciso di aderire a un fondo negoziale, confrontandolo con il guadagno che lo stesso investitore avrebbe realizzato decidendo invece di lasciare il TFR in azienda.
Ebbene, il nostro investitore si trova oggi con un portafoglio decisamente più ricco di quello che avrebbe ottenuto se avesse fatto affidamento solo sulla rivalutazione del TFR. Naturalmente il rendimento ottenuto varia a seconda del comparto scelto all’interno del fondo negoziale: si va dal più rischioso (dinamico) a quello più prudente (nel caso di Solidarietà Veneto si chiama “TFR Garantito” e mira a conseguire rendimenti pari o superiori al tasso di rivalutazione del TFR garantendo la restituzione del capitale investito e un rendimento triennale netto almeno pari alla rivalutazione netta del TFR in azienda).
Ricordiamo che alle posizioni dei fondi pensione contribuiscono non solo il trattamento di fine rapporto, ma anche il contributo volontario del lavoratore e il conseguente contributo del datore di lavoro, che è tenuto a erogare – in base agli accordi collettivi – solo se il lavoratore opta effettivamente per il versamento di un contributo volontario.
Di seguito la simulazione, calcolata ipotizzando un TFR maturato pari a 19mila euro, che funge da capitale di partenza. I dati si riferiscono al rendimento maturato sul capitale nel periodo 2007-fine 2016.
Vantaggi e svantaggi a confronto
In effetti, dati alla mano, i fondi negoziali risultano essere una scelta più vantaggiosa rispetto a quella lasciare il TFR maturando in azienda. Analizziamo pro e contro di ogni scelta (fonte: “La Ri-Evoluzione delle Pensioni”, State Street Global Advisors):
I fondi pensione complementari
I pro
- Gli attivi sono tenuti separati dal datore di lavoro;
- opportunità di partecipare al rialzo dei mercati, quindi possibile aumento dei risparmi oltre la formula fissa del TFR (+3,3% vs. +2,2% p.a. negli ultimi 10 anni);
- i contributi personali sono deducibili fino ad un importo massimo di 5.165,57€ ogni anno;
- a livello fiscale, le prestazioni pensionistiche sono assoggettate a una ritenuta a titolo d’imposta pari al 15%, con una riduzione dello 0,3% per ogni anno di partecipazione dopo il 15esimo (con un minimo del 9%);
- maggiori opportunità di investimento;
- benefici dovuti alla diversificazione degli asset;
- gli aderenti decidono l’importo del proprio contributo e la tempistica dei pagamenti;
- più conveniente rispetto ad altri strumenti di risparmio (come i fondi UCITS) avendo costi più simili a quelli di un prodotto istituzionale rispetto a quelli di un prodotto retail.
I contro
- I proventi possono aumentare o diminuire, a seconda dell’andamento dei mercati;
- i proventi dipendono principalmente dal livello dei contributi e dai rendimenti dell’investimento;
- gli aderenti possono accedere ai propri risparmi previdenziali prima della pensione solo in casi limitati e previsti dalla legge.
Il TFR in azienda
I pro
- Benefici garantiti: tasso di crescita annuo dell’1,5% + 75% del tasso di inflazione.
I contro
- Il tasso di crescita è più basso rispetto ai potenziali rendimenti degli investimenti;
- i lavoratori non possono apportare contributi aggiuntivi.
Fondi negoziali, questi sconosciuti
Eppure, stando ai dati forniti dalla COVIP (la Commissione di Vigilanza sui Fondi Pensione), l’adesione a fondi negoziali è ancora pratica poco diffusa in Italia: ad oggi, questi strumenti contano infatti circa 2,8 milioni di iscritti.
Gli italiani snobbano i fondi negoziali
Come sottolinea Assofondipensione, mai come oggi assume rilevanza l’adesione al secondo pilastro: le recenti riforme della previdenza pubblica (con il definitivo passaggio al regime contributivo), l’invecchiamento della popolazione e il mercato del lavoro sempre più sono tutti fattori che incidono negativamente sul sistema previdenziale pubblico. È indispensabile correre ai ripari.
Ma allora perché gli italiani tendono a non investire nelle forme di previdenza complementare? La risposta suona ormai come un ritornello: essenzialmente manca l’educazione finanziaria. L’ennesima testimonianza arriva da una ricerca condotta nel 2017 da IPSOS e Prometeia su 1.367 individui di età compresa tra i 18 e i 74 anni, con l’obiettivo di capire le esigenze di investimento e protezione delle famiglie italiane, la domanda di prodotti di risparmio e il loro rapporto con il mondo della finanza.
Ne è emersa una palese mancanza di conoscenza riguardo ai benefici dei fondi pensione complementari, in particolare tra i più giovani, con il 75% degli under 35 che ritiene di avere nozioni limitate o inesistenti sulle pensioni.
Di più. Alla richiesta di motivare la scelta di non investire in fondi pensione complementari, la maggior parte degli intervistati ha citato i costi troppo alti. Eppure questo motivo appare infondato, dato che i costi per i fondi pensione integrativi sono meno di un quarto di quelli dei fondi comuni e di altri prodotti pensionistici privati.
Queste risposte, insomma, sono un altro sintomo di scarsa conoscenza.
Che fare?
Come sempre, il primo passo è la consapevolezza. Tanto per cominciare, è importante che le persone conoscano il probabile livello di pensione che avranno maturato a fine carriera, in modo da prendere coscienza della situazione e da potersi muovere di conseguenza preparandosi con risparmi privati.
In secondo luogo, sarebbe bene informarsi a fondo sulle alternative disponibili: spesso, la scelta di lasciare il TFR in azienda è dettata da un misto di pigrizia e non conoscenza dell’alternativa. Come diciamo sempre, un risparmiatore informato è un risparmiatore migliore.
Dal blog di Advise Only.
Lasciate perdere, nessuno vi darà alcuna garanzia sui rendimenti futuri a differenza del Tfr in azienda, investimento sicuro e garantito anche in caso di fallimento dell’azienda. Solo che tutti vogliono spartirsi la torta sulle spalle dei lavoratori. Non abboccate
Nel mio caso, il datore di lavoro, su consiglio del commercialista-infame, ha cessato ogni tipo di pagamento dovuto al fondo negoziale cui aderivano i propri dipendenti… ora: il fondo mi “suggerisce” più volte di parlare con il datore, che più volte mi fa la supercazzola… a 40 anni passati e 15 di rapporto con la stessa ditta, prova a fare causa al tuo titolare, e vedi le ripercussioni sul posto di lavoro (se lo mantieni): due anni e mezzo di soldi persi… in questo paese manca la tutela della figura-principe del corretto contribuente: il dipendente. L’unico che ha sempre pagato le tasse fino all’ultimo centesimo, e in tempi regolari.