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Termini: “Petrolio, il crollo dei prezzi rafforza la trasformazione energetica”

Imagoeconomica

Il petrolio texano che tracolla e sprofonda in pochi mesi da 64 a -37,6 dollari/barile, lunedì 20 aprile, sulle consegne di maggio. La lieve risalita a 16 dollari sui contratti di giugno, subito dopo. Scene da fantascienza, mai viste prima, hanno messo sotto shock i mercati già alle prese con la pesantissima crisi post-coronavirus. La volatilità estrema lascia tuttavia intravvedere nuovi scenari, anche geopolitici, e cambiamenti strutturali per un settore strategico come quello dell’energia. 

Tutto può dunque succedere? “Lo shock dei prezzi del petrolio cui assistiamo ancora una volta mostra la vulnerabilità di fondo di un sistema incentrato sul petrolio. E la storia insegna che al ripetersi  di questi segnali il capitalismo si rinnova, anche attraverso sofferenze sociali drammatiche. A mio parere  il crollo e la volatilità dei prezzi del greggio rafforzano il percorso verso la grande trasformazione energetica, già avviata da qualche decennio; aumentano la pressione verso un modello basato su fonti rinnovabili, gas e  strumenti resi disponibili dalla rivoluzione digitale che offrono nuovi servizi connessi alle piattaforme elettriche.”

Ne è convinta Valeria Termini, professore ordinario di Economia Politica all’Università Roma Tre  e membro – tra il 2011 e il 2018 – dell’Autorità per l’Energia, dopo aver rappresentato il Paese nei negoziati internazionali per il Cambiamento Climatico, posizioni che le hanno consentito di guardare al settore energetico da diversi punti di vista. E’ un’analisi interessante la sua e per alcuni aspetti contrapposta a quella di altri economisti, che lascia spazio ad uno sviluppo irreversibile delle fonti rinnovabili combinate al gas e all’avanzata della digitalizzazione delle reti e dei nuovi servizi connessi. Vediamola più da vicino in questa intervista a FIRSTonline.

Il crollo dei prezzi del petrolio avrà effetti strutturali sul settore? E quanto potrà durare?

“Il terremoto dei prezzi a cui assistiamo è certamente una forte scossa per il sistema che si aggiunge alla straordinaria crisi economica dovuta alla pandemia. Ed è un fatto che va oltre il settore e la semplice congiuntura. Per capirne la portata penso dobbiamo distinguere tra fattori di breve periodo e ragioni di più lunga portata, strutturali appunto. Tra i primi c’è l’elemento finanziario determinato dalla scadenza dei futures di maggio martedì scorso, la scarsa disponibilità di stoccaggio a fronte della sovrapproduzione di petrolio da collocare, l’irrompere della speculazione sui mercati. Il prezzo dei futures di giugno è risalito, anche perché  saranno operativi i tagli produttivi annunciati per maggio e si amplierà la disponibilità delle Riserve Strategiche dei Governi di Stati Uniti, Cina, Corea e altri paesi ad accogliere il surplus di petrolio. Lo shock sui timori di esaurimento degli stoccaggi sembra più legato all’effetto sorpresa che non alla vera e propria saturazione. Ma il problema strutturale dell’eccesso di produzione e del crollo della domanda permane.”

Insomma c’è stato un corto circuito alimentato dalle tensioni e dalla forte volatilità dei mercati….

“Ci troviamo ad affrontare una situazione doppiamente straordinaria, è un fatto. Ma è utile chiedersi come e perché si è arrivati a questo shock. L’attuale congiuntura nasce da lontano: dal tentativo di estromettere le imprese americane che producono petrolio non convenzionale (shale oil) con un tasso di crescita  straordinario e assorbono quote crescenti della domanda globale. Su questo si è innestato lo scontro in atto nell’Opec Plus tra Arabia Saudita e Russia: il braccio di ferro sui tagli produttivi chiesti il 6 marzo dal Regno Saudita per sostenere il prezzo a fronte del forte calo della domanda mondiale; il rifiuto di Putin e anzi la strategia di ampliare ulteriormente l’output; la contromossa saudita di rilanciare con nuova produzione e sconti  sui prezzi per difendere la propria quota di mercato. Tutto questo ha innescato un insostenibile crollo dei prezzi al quale Donald Trump ha cercato di porre rimedio tardivo a ridosso della scadenza dei contratti, resuscitando il 10 aprile l’Accordo Opec plus sui tagli di 9,7 milioni di barili/giorno a partire da maggio. Una discesa in campo volta a proteggere i produttori americani di shale oil che garantiscono oggi circa il 70% dei 12 milioni di barili/giorno prodotti dagli Stati Uniti. Ma  era un accordo insufficiente a rassicurare il mercato che già da tempo ha messo sotto pressione le Majors. E infatti non lo ha apprezzato”.

Sullo sfondo c’è il tentativo di tagliare fuori i produttori di tight oil dal mercato, un secondo tentativo dopo quello del 2014 andato a vuoto?

“Sì, ma le condizioni oggi sono profondamente diverse. Allora, il break even (il prezzo che copre i costi) di quelle imprese scese da 80 a 45 dollari in poco tempo e i produttori Usa mostrarono una capacità di tenuta inattesa, restando competitivi anche con i nuovi prezzi. Sebbene allora il tentativo di espellerli fallì, molte imprese uscirono dal mercato. Questa volta può riuscire. Per tre ragioni fondamentali, di natura sia finanziaria che reale”.

Quali?

“La prima è lo squilibrio straordinario sulle quantità. La domanda di petrolio è scesa inizialmente per la minor richiesta della Cina, oggi la voragine della domanda si è allargata a 30 milioni di barili/giorno. Al calo della domanda del 30% si è contrapposto un aumento dell’offerta dovuto soprattutto ai produttori di shale americani. Gli Usa sono diventati per la prima volta esportatori netti di greggio, un trionfo politico per il Paese.

La seconda considerazione, lo dicevamo, riguarda la consegna dei contratti di maggio con i siti di stoccaggio impreparati ad accogliere l’arrivo di nuovo petrolio. Ne è rimasto colpito soprattutto il mercato americano e infatti a cadere è stato il prezzo di riferimento Wti piu’ del Brent europeo.

Il terzo fattore è finanziario: la speculazione accorre dove vede l’incendio e qui l’incendio era alto,  sia di natura finanziaria, che reale. Perciò, per rispondere alla sua domanda su quanto può durare l’attuale shock sui prezzi: molto dipenderà dalla tenuta delle imprese petrolifere americane, da ulteriori tagli alla produzione, e naturalmente dalla ripresa di attività nel mondo dopo la pandemia, soprattutto in Cina, il piu’ grande importatore di petrolio”.

Se dovesse fare un pronostico?

“Questa volta resistere sarà molto più difficile per le imprese americane, tanto che il presidente Trump ha già chiesto sostegni finanziari per il settore shale e un allentamento dei vincoli di riduzione della CO2: due interventi certo non positivi per lo scenario globale. Colossi come Chevron e Exxon mobil sono riusciti a portare il proprio break even sotto i 30 dollari ma pagano costi altissimi al mercato in termini di capitalizzazione e capacità di investimento. Altri, come Occidental Petroleum, hanno visto crollare le azioni da 40 a 14 dollari in pochi mesi, a fronte di un indebitamento di 40 miliardi di dollari. Sono forse una decina, su diverse centinaia, le aziende americane in grado di reggere un prezzo inferiore ai 40 dollari;  le altre rischiano di perdere il controllo dell’impresa in favore di banche e finanziatori, perché l’indebitamento è altissimo e a fronte di un margine operativo basso e di un crollo della capitalizzazione le imprese avranno difficoltà a rifinanziare i debiti in scadenza”.

In pratica, ai prezzi attuali – ben inferiori ai 30 dollari – molti produttori Usa rischiano di fallire. Una buona notizia per la Russia di Putin.

Si, ma solo in parte. E’ vero infatti che il break even russo si colloca a 15 dollari per coprire i costi e quello saudita ancora più in basso ma è altrettanto vero che la stabilità economica e sociale sia in Russia  che in Arabia Saudita richiedono un prezzo molto più alto: siamo intorno agli 80 dollari. Anche loro dovranno fare i conti con il crollo dei prezzi che mette in difficoltà tutti i Paesi produttori”.

Tirando le somme, quindi, chi vince e chi perde nella “guerra” del petrolio?

“La prima battaglia vede Putin in vantaggio, ma per quanto? Il gas, sul quale Putin punta, si  è rafforzato, è piu’ stabile; l’attacco alle imprese dello shale sembra avere successo. Direi che Putin ha potuto aprire il conflitto nell’Opec Plus forte dell’accordo con la Cina sul gasdotto Power of Siberia, la nuova infrastruttura (400 miliardi $) che porta gas dalla Siberia alla Cina Nord-orientale. Un accordo che rafforza l’alleanza tra Putin e Xi Jin Ping in versione anti-Trump. Nel lungo periodo, però, non è detto che la Russia vinca questa guerra. Il “vincitore” a mio avviso sarà la trasformazione energetica: la vulnerabilità espressa dal petrolio, insieme al rischio climatico percepito, spingono verso un nuovo modello di economia che darà più spazio alle fonti rinnovabili, al digitale e al gas in funzione stabilizzatrice. Il prezzo del petrolio sceso non è comunque competitivo con il nuovo modello. Si apre un’occasione storica sia per l’Europa che per l’Italia, ben posizionate in questi settori; nuovi servizi connessi alle fonti rinnovabili, che oggi possono sembrare di nicchia, diventeranno centrali nel nuovo modello energetico. Si tratta di costruire una strategia industriale di sistema e di lungo periodo nel Paese”.

Nell’immediato c’è la speranza che il terremoto in corso porti ad un calo del prezzo dei carburanti e delle bollette elettriche?

Il calo dei prezzi è certamente positivo per chi importa petrolio ma si trasferirà in minima misura sui carburanti, considerato che oltre la metà del prezzo finale è assorbito da accise – alcune delle quali francamente folkloristiche come il residuo dalla guerra di Abissinia o la crisi di Suez -oltre all’Iva. Per la bolletta elettrica c’è una piccola possibilità di trasferimento sulle tariffe in più ma anche in questo caso la materia prima incide per il 30% del prezzo poiché oltre alle imposte, qui il peso maggiore è degli incentivi, degli oneri di sistema”.

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