Nessun ufficio studi, nemmeno quello della Fed, è oggi in grado di prevedere con qualche grado di certezza come andrà l’inflazione, scrive Alessandro Fugnoli a poche ore dall’uscita del dato sull’aumento dei prezzi Usa in novembre. Non è dunque il caso di spendersi in previsioni comunque fragili: può darsi che l’onda, dopo aver raggiunto oggi i massimi dal 1982, rallenti. Oppure che una qualche variante del virus faccia da detonatore ad una crisi al rialzo, in Ucraina piuttosto che in Medio Oriente.
Ma, a quel che si vede, già si avvertono in giro per i mercati finanziari e guardando ai comportamenti delle parti sociali i primi effetti delle tensioni legati alle tensioni sul fronte del denaro. Per ora poco più di un rumore di fondo indefinito che corre da Wall Street alle cafeterias delle periferie industriali. Presto, forse, qualcosa di più.
Il primo segnale riguarda i grandi di Wall Street. Nei primi undici mesi di quest’anno 48 capi azienda tra i più prestigiosi hanno venduto azioni delle loro aziende per almeno 200 milioni di dollari cadauno, quattro volte tanto la media degli ultimi cinque anni. Si va da Ronald Lauder, re dei cosmetici, ai fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin fino alla famiglia di Wal-Mart a Mark Zuckerberg. In tutto fa 63,5 miliardi di dollari, ovvero il 50 per cento in più dell’intero 2020, per due terzi provocato dalle vendite nel settore tecnologico, guidate dall’esempio di Elon Musk che in un mese ha scaricato titoli Tesla per 10 miliardi di dollari. Una bella botta, anche per uno che controlla azioni dell’auto elettrica per 270 miliardi. A che si deve questa fuga sospetta? In parte al fisco, perché una prossima legge in discussione alla Camera intende imporre una sorta di capital gain sui pacchetti azionari detenuti da lungo tempo. E’ senz’altro questa la ragione che ha spinto Satya Nadella di Microsoft a vendere tutti suoi titoli.
Ma Ben Silverman, a capo del centro studi che da sempre studia le vendite degli insiders, la spiegazione è più semplice: “Questi signori vi stanno spiegando che, a questi prezzi, è arrivato il momento di far cassa: il costo del denaro non potrà che salire anche per i signori del web abituati a farsi finanziare a costo zero. E loro si rifugiano nel cash, convinti che le novità non potranno non costringere la Fed ad intervenire. Tante cose stanno cambiando, del resto. Chi poteva pensare, ad esempio, che stesse diventando così difficile fare incontrare la domanda e l’offerta di lavoro? L’altro segnale che qualcosa sta cambiando sotto i cieli d’America è la rivolta del barista (italiano nel testo) come lo definisce il Wall Street Journal: i dipendenti di uno Starbuck di Buffalo, per la prima volta nei cinquant’anni di storia del colosso del cappuccino, hanno votato per la costituzione di un sindacato. Non sono bastati gli sforzi della direzione, che ha pure aumentato la paga oraria a 17 dollari da 14, ad impedire una svolta che potrebbe ora estendersi alle 9 mila caffetterie del gruppo negli States dove, altra grande novità, a novembre i lavoratori hanno incrociato le braccia alla John Deere, ai colossi alimentari Mondelez e Kellogg, nonché nelle fabbriche di camion Volvo. Una ondata del genere non la si vedeva dagli anni Ottanta, quando l’inflazione prese il volo.
E forse non è un caso.