Marcello Messori, che oggi è uno dei più brillanti economisti italiani, tra la fine del 1998 e i primi mesi del 1999 era il consigliere economico per le privatizzazioni del Presidente del Consiglio Massimo D’Alema. Ma quando il capo del Governo si schierò a favore della cordata che promosse l’Opa a debito di Telecom ne prese atto e si dimise dal suo incarico, in netto dissenso con quell’operazione che affossò la prima compagnia telefonica italiana, che non era affatto un’operazione di mercato ma “una speculazione finanziaria di breve termine” e che rappresentò purtroppo “uno spartiacque per l’economia italiana”. Delle ragioni delle sue dimissioni da consigliere economico di Palazzo Chigi e del suo dissenso sull’Opa Telecom, Messori non ne ha mai parlato ufficialmente. Lo fa ora, dopo 25 anni, su FIRSTonline. Ecco la sua intervista.
La scomparsa di Roberto Colaninno, che dell’Opa Telecom del 1999 fu l’uomo simbolo, ha riproposto il confronto all’opportunità o meno della madre di tutte le scalate. Massimo D’Alema, che allora era Presidente del Consiglio e che spianò la strada all’Opa rinunciando ad esercitare i poteri di veto in difesa dell’interesse nazionale, ha dichiarato l’altro giorno alla Stampa che “l’Opa era una operazione di mercato e che sarebbe stato molto antipatico se il Governo si fosse opposto”. Ma lei – in sintonia con l’allora Direttore del Tesoro Mario Draghi – fu l’unico nello staff di Palazzo Chigi a dissentire e ad opporsi all’Opa dimettendosi da consigliere economico del Presidente del Consiglio: perché?
«Credo che, come lei stesso ha sottolineato nel suo ricordo su FIRSTonline, l’attività di Roberto Colaninno debba essere valutata non solo per l’Opa Telecom e per la negativa iniziativa in Alitalia, ma anche per la sua brillante gestione di attività industriali come Piaggio. In ogni caso, l’Opa Telecom ha soffocato la principale società italiana di telecomunicazione sotto una montagna di debiti e ha fatto sì che il nostro paese perdesse una solida presenza nel mercato della telefonia mobile sacrificando, con un’unica mossa, due preminenti e promettenti operatori. Già nella mia valutazione di fine anni Novanta, quell’Opa aveva due implicazioni negative cruciali che erano destinate a compromettere i precedenti tentativi di riformare le istituzioni economiche italiane e di costruire mercati regolamentati che fossero, insieme, aperti all’innovazione e alla concorrenza e compatibili con forme efficaci di inclusione sociale. In primo luogo, l’Opa Telecom non si configurava come un’operazione industriale di mercato ma rappresentava una speculazione finanziaria di breve termine, basata su strumenti che erano stati in voga negli Stati Uniti fra la fine degli anni Settanta e il decennio Ottanta e che avevano prodotto effetti deleteri. Per l’economia italiana, ciò equivaleva a sacrificare una delle poche società di grandi dimensioni con potenziale tecnologico innovativo. In secondo luogo, l’Opa Telecom sanzionava il fallimento dei tentativi, effettuati nel periodo 1992 – 1998, per liberalizzare e ri-regolamentare i mercati e rinnovare una struttura produttiva italiana, segnata da pervasive posizioni di rendita – pubbliche e private. Quei tentativi non avevano sedimentato efficaci interazioni fra livello politico-istituzionale, strumenti di politica economica e attività finanziario-produttive. Dichiarando di mirare al ridisegno degli assetti di potere del capitalismo italiano, il governo D’Alema decise di legittimare i cosiddetti “capitani coraggiosi” quale potenziale alternativa alle vecchie famiglie imprenditoriali. Fin da allora, avrebbe dovuto essere evidente che la maggioranza dei supposti “capitani coraggiosi” era costituita da sedicenti finanzieri pronti a ogni avventura che promettesse facili guadagni con pochi impegni personali. La più probante conferma è data dal fatto che, a metà del primo decennio del duemila, gran parte di quei “capitani coraggiosi” fu spregiudicata protagonista della cordata nazionale per la ‘difesa’ di Antonveneta e Bnl, meritandosi l’etichetta di “furbetti del quartierino”».
Ci racconta come andarono esattamente le cose sull’Opa Telecom all’interno della squadra di D’Alema? Lei sottopose le sue critiche al Presidente del Consiglio? Come fu la discussione e che cosa rispose il premier al punto da indurla a dimettersi?
«Per venticinque anni mi sono astenuto dal commentare le discussioni interne alla Presidenza del Consiglio perché ritengo che chi ricopre posizioni istituzionali, pur se temporanee e di mera consulenza, si impegni implicitamente a un obbligo di riservatezza. Ciò che posso ricordare, in quanto già emerso alla fine degli anni Novanta, è che io manifestai per tempo un motivato dissenso rispetto all’operazione Telecom e al suo impatto rispetto a Olivetti per ragioni analoghe a quelle che ho appena ricordato. Quando a margine di un convegno su privatizzazioni e regolamentazione dei mercati, il Presidente del Consiglio si espresse pubblicamente a favore dell’operazione, io presi atto che le mie analisi non erano state convincenti e ne trassi l’ovvia implicazione, dimettendomi dal ruolo di consigliere per le privatizzazioni e i mercati finanziari presso la Presidenza del Consiglio. In proposito, vorrei essere chiaro a costo di risultare banale. Ero e resto convinto che, se si offrono pareri a un’alta carica istituzionale, si debbono rispettare le scelte politiche (nel caso, politico-economiche) di chi ha responsabilità di governo. Se i pareri proposti sono segnati da divergenze di fondo rispetto alle scelte politico-economiche, va però preso anche atto senza polemiche che il proprio lavoro è inutile. Nel mio caso, l’Opa Telecom faceva seguito a mie valutazioni critiche rispetto a inappropriate interferenze istituzionali, che avevano arbitrariamente bloccato due cruciali iniziative di mercato per il consolidamento fra grandi gruppi bancari (in particolare, Unicredit e Comit). In questo caso, il governo D’Alema decise di non inviare alcun segnale».
Nell’intervista alla Stampa D’Alema riconosce che “il problema vero (dell’Opa) era la fragilità della cordata (che sorreggeva Colaninno) nella quale c’erano altri che avevano interessi prettamente finanziari” come i bresciani dell’Hopa capitanati dal bucaniere Chicco Gnutti che, dopo aver vinto la scalata, fu il primo a vendere le azioni Telecom a Tronchetti Provera con grande disappunto dello stesso Colaninno: possibile che questo aspetto non indusse il premier a pensarci prima di dare il via libera l’Opa?
«Non sono in grado di spiegare perché l’allora Presidente del Consiglio abbia deciso di legittimare l’iniziativa di Gnutti e soci. Il solo aspetto, che mi sento di ribadire, è che io cercai di far emergere i punti critici di quell’Opa sottolineandone le distorsioni rispetto a operazioni di acquisizione in mercati efficienti. Il fatto che la struttura proprietaria di Telecom, emersa dalla privatizzazione e preesistente all’Opa, non fosse ottimale e non avesse consentito una gestione efficace di una società robusta non rendeva – di per sé – auspicabile una proposta di acquisto che ribaltasse gran parte dell’onere dell’acquisizione sulla società acquisita e ne compromettesse la futura dinamica».
Ma il punto cruciale era che l’Opa avveniva a debito e che i costi dell’intera operazione venivano addossati alla stessa Telecom, affossando così una delle migliori compagnie telefoniche che da allora non s’è più ripresa: Lei provò a dirlo a D’Alema ed è mai possibile che il premier non capisse che proprio su questo terreno – la sostenibilità dell’Opa e di Telecom – era in gioco l’interesse nazionale?
«Sul piano fattuale, sono simpatetico con gran parte delle sue considerazioni. Se posso permettermi, mi pare che la sua valutazione della successiva evoluzione di Telecom abbia avuto probante conferma empirica negli eventi degli ultimi venti anni e più. Inoltre, il suo ultimo interrogativo rappresenta una sintesi efficace di quanto ho cercato di argomentare con la mia precedente analisi. Mi lasci aggiungere che, a cavallo del nuovo millennio, il ritardo accusato dall’apparato produttivo italiano nell’adozione delle nuove tecnologie Ict avrebbe richiesto massicci investimenti da parte della nostra principale società di telecomunicazione e la diffusione alle medie e piccole imprese delle positive ‘esternalità’, legate a questi investimenti. Viceversa, addossando a Telecom un enorme stock di debito, l’Opa precluse la possibilità di adeguati investimenti sulla frontiera dell’innovazione e impose vincoli organizzativi stringenti e distorsivi. Come lei ha già detto, da allora “Telecom non si è più ripresa” sebbene, fino a pochi anni prima dell’Opa, avesse avuto posizioni di preminenza innovativa in Europa. Anche se può apparire facile fare il “profeta di sventura ex post”, va detto che i ritardi accusati oggi dall’Italia in termini di reti di telecomunicazione sono stati anche il frutto avvelenato di quell’Opa. In tal senso, ho prima sostenuto che legittimare l’Opa Telecom ostacolò gravemente i tentativi di modernizzare l’apparato produttivo italiano, perseguiti negli anni Novanta, e portò alla legittimazione e alla riproduzione di posizioni di rendita che hanno disincentivato le innovazioni economiche, i processi di ristrutturazione industriale e di sviluppo dei servizi, il ridisegno dello stato sociale».
Durante il suo Governo D’Alema si mostrò sempre sottomesso ai poteri forti della finanza italiana (dalla Mediobanca di Cuccia alla Banca di Roma di Geronzi) e fieramente contrario alla punta di diamante del capitalismo industriale rappresentato dalla Fiat che, attraverso Ifil, era presente nel capitale di Telecom: quanto pesarono queste logiche sull’atteggiamento del premier?
«Formulerei un giudizio meno positivo sul ruolo svolto dalla Fiat e dall’Ifil nell’attivazione di processi innovativi del sistema economico italiano, specie a partire dalla fine degli anni Ottanta. Non sono inoltre in grado di valutare, in modo fattuale, il rapporto fra il governo D’Alema e alcuni dei poteri finanziari da lei menzionati. Mi paiono tuttavia abbastanza chiari due fattori. Primo: come ho già accennato, il Presidente del Consiglio riteneva che il ridisegno del capitalismo italiano si potesse fondare su un ricambio del ceto dirigente, ricondotto alla sostituzione delle vecchie grandi famiglie e di molti manager pubblici con persone nuove (appunto i “capitani coraggiosi”). Molto ci sarebbe da dire rispetto a questa ingenua idea, di matrice proudhoniana, secondo cui il ricambio di un ceto dirigente si può esaurire in sostituzioni di persone anziché richiedere graduali e profonde riorganizzazioni economico-sociali guidate da istituzioni intermedie. Senza addentrarsi qui in problemi complessi che ci farebbero perdere il filo principale del ragionamento, basti legare tale opzione al secondo fattore. Per varie ragioni legate – in parte – alle dinamiche interne a Mediobanca e – in parte – alla fine di un “mondo chiuso” in cui la principale banca d’investimento italiana poteva agire in un ambiente captive costellato da trascurati conflitti di interesse, verso la fine degli anni Novanta la stessa Mediobanca si trovò costretta a ripensare al proprio ruolo nel mercato finanziario italiano. L’idea fu che, dopo aver funto da nume tutelare dei maggiori – ma deboli – capitalisti privati italiani rispetto alla preponderante impresa pubblica fin dagli anni del ‘miracolo economico’, a cavallo del nuovo millennio e dopo la controversa stagione delle privatizzazioni si aprisse per Mediobanca un ruolo di cerniera fra le declinanti grandi imprese nazionali e le emergenti imprese di medie dimensioni. In quest’ottica, vi fu un’oggettiva convergenza fra orientamento del governo e orientamento di Mediobanca».
Sorprendente fu l’adesione all’Opa di Mediobanca: in questo caso secondo Lei prevalse il desiderio di incassare una ricca commissione per la consulenza strategica e una rilevante plusvalenza sulle azioni in portafoglio o la voglia di dare una lezione alla Fiat?
«Non so rispondere a questa domanda, se non ribadendo le considerazioni appena svolte. Certo, alla fine del decennio Novanta, i rapporti fra Mediobanca e Fiat non erano più quelli dei decenni precedenti. Inoltre, giuste le precedenti considerazioni, la principale banca italiana di investimento aveva interesse a essere protagonista di un’Opa che coinvolgesse anche imprenditori di medie dimensioni. Va peraltro notato che, sotto il profilo dell’ingegneria finanziaria, l’Opa a debito su Telecom fu disegnata con grande sapienza tecnico-finanziaria. Se ne può, pertanto, concludere che il contributo di Mediobanca all’Opa Telecom si è fondato su svariate motivazioni».
Durante la gestazione dell’Opa avvennero capovolgimenti di fronte inspiegabili come il voltafaccia dell’allora Governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, che promise all’Ad di Telecom, Franco Bernabè, di sostenerlo ma che nella assemblea della compagnia telefonica che doveva pronunciarsi sull’Opa fece il contrario: c’è chi dice che le pressioni di D’Alema su Via Nazionale ebbero il loro peso. È un’interpretazione plausibile?
«Non ho alcuna informazione specifica al riguardo. E’ vero che la scelta di voto della Banca d’Italia sorprese molti osservatori; ma non sono in grado di fare ulteriori valutazioni. Oltretutto, a quella data, mi ero già allontanato dalla Presidenza del Consiglio; e, anche se fossi rimasto lì, non avrei avuto accesso a informazioni del genere».
In conclusione e con il senno di poi, si può dire che senza la dissennata Opa a debito l’Italia avrebbe forse ancora oggi una delle più forti compagnie telefoniche d’Europa senza essere costretta a cedere la sua rete a un fondo americano come sta avvenendo con KKR?
«Non simpatizzo con quanti sostengono che, una volta perduto un treno, si rimane appiedati. Non simpatizzo neppure con quanti si rifanno alla saggezza dei proverbi per sostenere che “chi ben incomincia è a metà dell’opera”. In un mondo dinamico, aperto ai cambiamenti innovativi e attento all’inclusione sociale, vi sono sempre nuove opportunità da cogliere e si può sempre mancare un traguardo che sembra a portata di mano. Eppure, penso che l’Opa Telecom e il drammatico impatto negativo che il conseguente indebitamento ha avuto sull’evoluzione della società siano stati uno spartiacque per l’economia italiana. L’Opa Telecom ha, quantomeno, ritardato la capacità innovativa dell’apparato produttivo italiano».