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Taylor Swift for President: la popolarità della popstar e l’impopolarità dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti

A pochi mesi dalle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, entrambi i principali candidati, Donald Trump e Joe Biden, sono molto impopolari. Nonostante l’insoddisfazione, non sono emerse alternative credibili. Taylor Swift incarna il desiderio di rinnovamento, ma non può candidarsi per restrizioni legali ed età. Intervista al professor Stefano Luconi

Taylor Swift for President: la popolarità della popstar e l’impopolarità dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti

A poco più di cinque mesi dal voto per la Casa Bianca, uno degli aspetti più rilevanti dell’odierna campagna elettorale è l’impopolarità di entrambi i candidati dei due maggiori partiti Secondo il sito fivethirtyeight.com, alla fine di maggio, prima ancora della condanna di Donald Trump per tutti e 34 i capi di imputazione che erano stati elevati contro di lui nel processo sul pagamento alla pornostar Stormy Daniels, The Donald incontrava lo sfavore del 53,7% degli elettori potenziali e la percentuale saliva perfino al 56,3% nel caso di Joe Biden.

Impopolari, ma candidati

Lo scontento per l’offerta politica del partito repubblicano e di quello democratico, tuttavia, non è riuscito a far emergere alternative credibili. Robert F. Kennedy Jr., nipote dell’ex presidente John F. Kennedy e figlio dell’ex senatore federale e procuratore generale Robert F. Kennedy, è accreditato di meno del 10% delle indicazioni di voto dei possibili elettori di novembre. 

Del resto, gli sfidanti di Biden e Trump nelle elezioni primarie – Dean Phillips, in casa democratica, e Ron DeSantis e Nikki Haley in quella repubblicana – sono rapidamente usciti di scena, incapaci di far convergere sui loro nomi chi non si riconosceva in quelli che da tempo erano i vincitori in pectore della nomination dei rispettivi partiti. Addirittura, nelle primarie democratiche, rispetto agli oltre 13 milioni di voti raccolti finora da Biden, più di 600.000 elettori hanno preferito inviare alla convenzione nazionale delegati uncommitted, cioè che non si erano formalmente impegnati a sostenere un candidato specifico.

Il dilagare dell’antipolitica

Le ripetute gaffe e i frequenti vuoti di memoria di Biden, la difficoltà del presidente in carica a non confondersi perfino quando si trova a leggere un testo scritto, i comportamenti criminosi di Trump e soprattutto una dialettica che scade sempre più in uno scontro manicheo tipico delle logiche del “muro contro muro” stanno facendo dilagare l’antipolitca o comunque la disaffezione verso la partecipazione elettorale. Le previsioni degli analisti ipotizzano che, dopo aver raggiunto i 160 milioni nel 2020, quest’anno il numero dei votanti effettivi si attesterà tra il 145 e i 150 milioni, se non calerà addirittura a 140 milioni.

Abbiamo chiesto al professor Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova, lumi su questo fenomeno preoccupane per la democrazia del paese ancora più potente del mondo.

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Nicholas Kristof, un columnist di vaglia del “New York Times”, ha scritto che tre quarti degli americani pensano che il paese stia andando nella direzione sbagliata. Adesso per la prima vola nella storia degli Stati Uniti abbiamo un ex-Presidente e candidato alla Casa Bianca di uno dei maggiori partiti condannato da un tribunale per reati penali. Ciò non gioverà molto a superare il problema della disaffezione degli elettori americani che pare veramente un treno in corsa. 

“La disaffezione dei cittadini statunitensi nei confronti delle elezioni è destinata ad accentuarsi dopo la condanna di Trump, lo scorso 30 maggio, nel primo dei primi quattro processi penali che lo vedono sul banco degli imputati. I media si stanno interrogando su quanti voti il riconoscimento della colpevolezza dell’ex presidente sarà in grado di spostare dal partito repubblicano a quello democratico nelle elezioni di novembre”. 

Sembra che questa vicenda non sposti molto voti, vero?

“Non molti voti in affetti, appena il 4%, secondo un sondaggio della ABC News, anche se un altro 16% di elettori repubblicani starebbe riconsiderando chi votare. È, invece, presumibile, sebbene sia necessario aspettare il giorno delle elezioni per ottenere il dato quantitativo, che la prima condanna penale di un ex presidente in tutta la storia degli Stati Uniti accentui il senso di alienazione degli americani verso un sistema politico che consente a una persona – giudicata colpevole, ancorché per il momento solo in primo grado, di avere interferito con lo svolgimento delle elezioni – di ricandidarsi a quella stessa carica che aveva conquistato in passato, grazie anche al fatto di avere comprato in modo fraudolento il silenzio di chi avrebbe potuto danneggiarlo agli occhi dei votanti rendendo pubblica una sua relazione extraconiugale”.

Veramente l’America non riesce ad esprimere di meglio?

“Stando così le cose, le speranze di un ritorno a una significativa mobilitazione politica sembrano risiedere in candidature che siano espressione della società civile e che soprattutto si dimostrino meno divisive rispetto agli attuali contendenti per la Casa Bianca. Non a caso, l’unico sfidante a sconfiggere Biden in una delle tappe delle primarie democratiche, l’ininfluente caucus dell’arcipelago delle Samoa Americane (che ha assegnato appena 6 dei 3.934 delegati per la convenzione nazionale), non è stato un esponente politico ma un imprenditore delle nuove tecnologie, Jason M. Palmer”.

In effetti sembra che i settori più dinamici della società americani, come quello degli imprenditori, stiano iniziando a farsi sentire, pur sempre con la prudenza e la circoscrizione che caratterizza questi soggetti. È per esempio il caso di Ray Dalio.

“Ray Dalio, il fondatore dello hedge fund Bridgewater, in una recente intervista al Financial Times, si è fatto portavoce di esigenze analoghe a quelle che hanno contribuito al successo di Palmer nelle Samoa Americane e ha dichiarato che voterebbe per Taylor Swift se la cantante corresse per la presidenza. Si è ovviamente trattato di una boutade da fantapolitica”. 

Ma potrebbe Taylor Swift candidarsi davvero alla presidenza?

“Swift non è candidata e, anche se volesse, non potrebbe esserlo. A soli 34 anni d’età non ottempererebbe a uno dei requisiti imprescindibili per svolgere il mandato di presidente, cioè aver compiuto 35 anni, come stabilito dall’articolo 5, sezione 1, comma 5 della Costituzione. Qualcuno potrebbe obiettare che li compirebbe il prossimo 13 dicembre; quindi, in tempo per giurare come presidente il 20 gennaio 2025 da trentacinquenne, ma alcuni Stati dell’Unione non riconoscerebbero tale escamotage in base al principio che chi è ineleggibile al momento delle elezioni (quest’anno il 5 novembre) è anche incandidabile”. 

Ma non è questo il punto, vero?

“Certo, non è, comunque, questo il punto. Swift rappresenterebbe la necessità di svecchiare una politica istituzionale sempre più caratterizzata dalla gerontocrazia: Trump compirà 78 anni il 14 giugno; Biden ne ha già 81 e raggiungerà gli 82 il 20 novembre, con due mesi di anticipo rispetto all’inizio di un ipotetico secondo mandato; Kennedy ne ha 70”.

C’è solo il fattore età alla base di questo scenario fantapolitica o c’è qualcosa di più sostanziale?

“In effetti il fattore età non è l’unico aspetto positivo simboleggiato da un’ipotetica candidatura di Swift. Nominata dal settimanale Time come “persona dell’anno” per il 2023, la cantante è uno dei personaggi più popolari della scena pubblica statunitense, con un indice di gradimento che, secondo il sito yougov.com, sfiorerebbe il 60%. All’inizio dello scorso febbraio, gli statunitensi si sono appassionati più all’itinerario giapponese del suo Eras Tour e all’eventualità che il suo ultimo concerto a Tokyo le impedisse di volare a Las Vegas in tempo utile per assistere al Super Bowl, che vedeva in campo il fidanzato, Travis Kelce, tight end dei Kansas City Chiefs, che non all’andamento delle primarie nella Carolina del Sud e nel Nevada”. 

Quale potrebbe essere l’elettorato della Swift?

“Sia pure con una netta prevalenza di democratici (stimati in circa il 55%), il pubblico di Swift è trasversale rispetto ai due maggiori partiti e i concerti della cantante sono stati descritti da Jessica Bennett sul New York Times, come “oasi felici” in un’America lacerata e imbarbarita dalle guerre culturali. Ai suoi concerti si ritrovano spettatori dei più disparati gruppi etnici e razziali. Swift ha pure dimostrato di saper motivare gli statunitensi per farli partecipare alla vita politica. Un suo appello via Instagram in occasione del più recente National Voter Registration Day (il 19 settembre 2023) è riuscito a provocare un’impennata nel numero di giovani statunitensi che sono andati a iscriversi nelle liste degli elettori”. 

La Swift ha però una sua precisa collocazione nello schieramento politico americano. Forse la sua candidatura non potrebbe essere bipartisan?

“Gli aspetti un po’ idilliaci di cui la personalità di Swift sembrerebbe espressione sarebbero destinati con forte probabilità a naufragare qualora si materializzasse davvero la prospettiva di una sua candidatura, come immaginato da Dalio. Swift è dichiaratamente democratica. Si è rammaricata di non aver preso una posizione pubblica contro Trump nella campagna del 2016. Due anni dopo, in occasione delle elezioni di mid term, ha appoggiato la candidatura di due democratici, Phil Bredesen e Jim Cooper, in corsa rispettivamente per il Senato e per la Camera, nel Tennessee, lo Stato dove risiede”.

Che cosa l’aveva indotta ad appoggiare i candidati democratici?

“A spingerla in quella direzione erano state le scelte della sfidante repubblicana di Bredesen, Masha Blackburn, che al Congresso aveva votato contro provvedimenti per tutelare le donne, gli afroamericani e la comunità LGBTQ+. Un singolo come You Need to Calm Down, presente nell’album Lover del 2019, è una difesa delle identità LGBTQ+ e una stigmatizzazione dell’omofobia, non proprio contenuti condivisibili per molti conservatori”. 

Sono temi molto cari alla Swift come cittadina e come artista?

“Il singolo principale della raccolta, Me!, è stato lanciato deliberatamente il 26 aprile, il giorno in cui negli Stati Uniti e in altri Paesi anglofoni si celebra la visibilità lesbica. Nel 2020 Swift ha fatto ammenda del suo silenzio di quattro anni prima, schierandosi dalla parte di Biden. Molti commentatori la considerano oggi una figura autorevole per portare nel campo dell’attuale inquilino della Casa Bianca millennials ed early zoomers, le generazioni più giovani di votanti potenziali, di per se stessi poco inclini a identificarsi in un ottuagenario per semplici ragioni anagrafiche. Secondo un sondaggio commissionato da Newsweek a Redfield & Wilton Stretegies, quest’anno il 18% degli elettori voterebbe “probabilmente” o “molto probabilmente” il candidato alla presidenza indicato da Swift”.

E Trump e i repubblicani che dicono della Swift?

“Trump ha accusato di ingratitudine Swift a causa del suo appoggio ai democratici, facendo riferimento al fatto che, da presidente, nel 2018, aveva promulgato il Music Modernization Act, una legge sul copyright che, a suo dire, avrebbe permesso alla cantante di aumentare i ricavi derivanti dalle sue attività musicali. Il partito repubblicano, però, ha finora tollerato le uscite politiche di Swift e i contenuti di alcuni suoi pezzi per non alienarsi i suoi numerosi fan”. 

E se la Swift passasse a un livello superiore di impegno nella politica, che le succerebbe?

“Se la cantante non si limitasse più a semplici endorsement e decidesse di scendere in lizza per una carica elettiva, finirebbe pure lei nel tritacarne della faziosità dello scontro tra i partiti, con scarse possibilità di uscirne incolume. D’altro canto, Bredesen, che Swift aveva presentato come il paladino dei suoi valori di inclusività nel Tennessee, nel 2018 fu battuto con ampio margine da Blackburn, che conquistò il seggio al Senato federale con il 54,7% dei voti”.

Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).

Libri

Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25 euro edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle

Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99 euro edizione Kindle

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