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Tavoni (Polimi): “Accordo Onu sul clima? Più parole che fatti ma niente allarmismi”

Imagoeconomica

“L’accordo Onu sul clima? Più parole che fatti. Di fatto è il potenziamento di un accordo già firmato, quello di Parigi del 2015, e che continua a non essere vincolante”. A spiegare a FIRSTonline lo stato dell’arte sulla lotta ai cambiamenti climatici, all’indomani delle grandi manifestazioni giovanili per le vie e per le piazze di tutta Italia, è Massimo Tavoni, docente di Climate Change Economics alla School Management del Politecnico di Milano, invitando prima di tutto a non fare allarmismi: “Gli obiettivi al 2030, anche qualora fossero raggiunti, non basterebbero a contenere l’aumento della temperatura entro i 2 gradi. Ma io dico che 2,5 gradi sono comunque meglio di 4-5 gradi: non potendo realizzare lo scenario migliore, va intanto evitato quello peggiore”.

Professore, che cosa è venuto fuori concretamente dalla recente e importantissima conferenza Onu sul clima?

“L’intesa raggiunta è positiva ma non va molto oltre l’accordo già in vigore di Parigi, che peraltro non tutti i Paesi hanno firmato e che nessuno può garantire di mantenere, visto che non è vincolante. Del resto sarebbe difficile renderlo vincolante, dato che ogni Paese ha una propria sovranità nazionale: lo stesso accordo di Kyoto non fu rispettato nemmeno da molti degli Stati che lo avevano sottoscritto”.

Ma stavolta non c’è più tempo: possibile che alcuni Paesi, come gli Usa, continuino a tergiversare?

“Gli Usa, in quanto secondo emettitore di CO2 al mondo, e il Brasile, in quanto primo assorbitore di anidride carbonica attraverso la foresta amazzonica, sono i due problemi più grossi. Anche la Russia però è indietro: ha sì firmato l’accordo, ma i suoi obiettivi sono molto ridotti ed insufficienti. E pure l’assenza del presidente cinese non è un bel segnale: la Cina è prima al mondo per emissioni di CO2 e dopo un paio d’anni in cui sembrava averle contenute, nel 2019 stanno di nuovo aumentando. Qualche segnale positivo però è arrivato”.

Quale?

“Alcuni Paesi si sono impegnati a fare di più, penso ad esempio ai Paesi scandinavi e all’Argentina, ed è stata rilanciata la proposta di un fondo da 100 miliardi l’anno per finanziare l’energia pulita soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, attraverso investimenti in infrastrutture energetiche”.

Cento miliardi, proprio come quelli stanziati dalla Germania per la svolta green nel prossimo decennio.

“Un grande investimento, anche se la Germania rimane tra i Paesi più inquinanti e finora ha fatto molto meno di quello che sarebbe stato lecito aspettarsi”.

L’Europa ha annunciato tramite la presidente Ursula von der Leyen un Green New Deal, al quale il nuovo Governo italiano ha già promesso di voler aderire. Che cosa comporterà concretamente?

“Va intanto detto che l’Europa nell’impegno sul clima è un esempio virtuoso. L’Italia fa parte dell’Ue, quindi dobbiamo fare quello che dice Bruxelles e in questo caso, visto che gli obiettivi sono ambiziosi, va benissimo. Il Green New Deal non è altro che il rafforzamento degli obiettivi già fissati da qui al 2030, basati su tre pilastri: tassa sulle emissioni di CO2 a carico delle grandi attività industriali (responsabili del 50% delle emissioni continentali), pari a circa 25 euro a tonnellata di anidride carbonica prodotta; incentivi sulle rinnovabili; efficienza energetica. La grande novità è l’ipotesi, di cui von der Leyen ha parlato a Gentiloni, di una cosiddetta carbon border tax: per evitare che le aziende dribblino l’imposta sulla CO2 impiantando gli stabilimenti fuori dall’Ue, verrà introdotta una tassa di ritorno, sull’importazione di prodotti la cui produzione è costata l’emissione di CO2 nell’atmosfera, in proporzione alla quantità emessa. La tassa è pensata per evitare che le emissioni “scappino” e che il problema, anzichè risolversi, si sposti altrove”.

Una sorta di dazio ambientale, verrebbe da dire.

“Esatto, ma in questo caso l’idea è giusta. La soluzione ottimale sarebbe ovviamente quella di un accordo vincolante, con sanzioni ben precise per chi non raggiunge gli obiettivi: purtroppo però non si può fare, e allora ben vengano queste formule. Meglio che i costi della lotta ai cambiamenti climatici ricadano in qualche modo sulle grandi imprese piuttosto che sulle fasce più povere: uno degli obiettivi dell’accordo Onu è anche evitare tensioni sociali, in stile gilets gialli”.

Come farlo?

“Bilanciando tassazione e sussidi. I soldi che si ricaveranno ad esempio dalla carbon border tax, potrebbero essere utilizzati per proteggere le famiglie con redditi più bassi, in modo da non fargli risentire, ad esempio, dell’aumento delle bollette o del prezzo della benzina, che pur potrebbero rivelarsi necessari. I soldi da qualche parte vanno presi, ma l’importante è usarli bene, in modo che non siano i più deboli a pagare il costo della transizione energetica”.

Per salvare il pianeta è più importante l’innovazione tecnologica o un netto e urgente cambiamento dei nostri stili di vita?

“Direi entrambe le cose. Se penso agli Usa, dove alcune abitudini saranno difficili da cambiare nel breve periodo, mi viene da dire che la tecnologia avrà un ruolo decisivo: penso ancora una volta alle rinnovabili, alle auto elettriche, allo stoccaggio di energia, ai bio combustibili, all’efficienza energetica, alla digitalizzazione. Tutti processi comunque già in corso, in evoluzione. In Europa invece è possibile anche, a fianco di quello tecnologico, un cambiamento culturale. Qui iniziamo a capire che ciò che fa bene all’ambiente, fa spesso bene anche alla salute della persona: e dunque ad esempio stiamo imparando a ridurre il consumo di carne rossa o a muoverci nelle grandi città in bicicletta, con i mezzi pubblici o col car sharing”.

Anche in Italia siamo culturalmente pronti?

“In realtà in Italia non troppo. Lo dimostrano le ultime elezioni Europee: quasi ovunque nel continente, ad eccezione dell’area mediterranea, hanno trionfato i partiti verdi. In Italia non ce n’era nemmeno traccia e questo non è un gran segnale, anche se comunque anche da noi il trend ecologista è in avanzamento”.

Che cosa pensa di Greta Thunberg?

“Che fa del bene alla causa. Questo non significa che tutti dobbiamo imitarla e viaggiare dall’Europa all’America in barca a vela, sia chiaro. Ma è giovane e sta lanciando un messaggio molto forte: le sue previsioni sembrano apocalittiche ma secondo me è soltanto seriamente preoccupata, e pensa di più al futuro rispetto alle persone più anziane. Del resto saranno lei e i suoi coetanei a subire per più tempo le drammatiche conseguenze dei cambiamenti climatici”.

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