Si ama dire che le banche centrali hanno finito le munizioni, sono disperate, non sanno più cosa fare. Si dice che si sono messe da sole nell’angolo e che con i tassi su questi livelli non hanno più spazio di manovra.
Chi fa queste affermazioni ha ragione se la sua intenzione è quella di mettere in evidenza gli effetti collaterali dei tassi nominali a zero o negativi e dei tassi reali che sono da anni negativi in tutto il mondo sviluppato. La scelta di mantenere i tassi così bassi ha infatti almeno sei conseguenze spiacevoli.
La prima è che produce un’allocazione subottimale del capitale. La seconda è che favorisce la formazione di bolle che un giorno, magari lontano, scoppieranno. La terza è che, paradossalmente, induce le imprese e le famiglie, consapevoli che i tassi rimarranno bassi nel lungo periodo, a prendersela calma nei loro investimenti produttivi. Ricordiamo che uno dei fattori di ripresa ciclica, tipicamente, è proprio la fretta di contrarre un mutuo per comprarsi la casa (o di aprire un nuovo impianto produttivo) prima che i tassi risalgano. Se si ha l’impressione che fra cinque o dieci anni i tassi saranno bassi come oggi la fretta scompare.
La quarta è che il rallentamento degli investimenti azzera la crescita della produttività, perpetuando la semistagnazione. La quinta è che parti importanti del sistema previdenziale come i fondi pensione americani dovranno un giorno annunciare che le pensioni che erogheranno saranno la metà di quello che si erano impegnati a fornire. La sesta è che, per rifarsi dei tassi reali negativi e dell’incertezza sulla copertura pensionistica, si consuma di meno e si risparmia di più, rallentando ulteriormente la crescita.
Detto questo, le banche centrali, volendo, hanno ancora spazio di manovra e ne avranno davvero in abbondanza da qui alla fine dell’anno. Avranno addirittura il lusso dell’imbarazzo della scelta.
Partiamo dalla Fed. Potrà non fare assolutamente nulla per tutto il 2016, perché l’inflazione è ancora bassa. Potrà alzare i tassi il 20 settembre e annunciare che per qualche mese starà alla finestra a vedere gli effetti della sua decisione. Il mercato, superata l’iniziale sorpresa, considererà l’aumento come una conferma della forza dell’economia, guarderà ai prossimi sei mesi senza la paura di altri rialzi e arriverà di slancio all’8 novembre, il giorno delle presidenziali.
In alternativa la Fed ci dirà il 20 settembre che tutto è pronto per un rialzo in dicembre. Il mercato tirerà un sospiro di sollievo e avrà tutto il tempo di prepararsi per il rialzo di fine anno, arrivando comunque perfettamente tonico alle elezioni dell’8 novembre.
L’unica strada che può disturbare i mercati è quella lasciata aperta da Stanley Fischer, il doppio rialzo settembre-dicembre. È però legittimo pensare che Fischer, il più falco della troika che guida la Fed, abbia volutamente alluso a due rialzi sapendo benissimo che ce ne sarà uno solo, ma creando così le condizioni per un sospiro di sollievo in dicembre.
Perché, ci si può chiedere, il rialzo del dicembre scorso fu un mezzo disastro e quello di quest’anno dovrebbe invece essere accolto da mercati azionari sui massimi storici e bond pacificati e tranquilli? La ragione è che nel 2015 la Fed ebbe paura di alzare quando le cose andavano bene e, di rinvio in rinvio, si sentì a un certo punto a un passo dalla perdita totale di credibilità finendo con l’alzare i tassi, con una decisione quasi isterica, proprio mentre l’economia stava iniziando a rallentare e mentre la Cina stava entrando in un trimestre di recessione.
Da allora la Fed ha imparato che è meglio alzare quando si può piuttosto che quando si deve. E quando si possono alzare i tassi? Quando l’economia va bene, il dollaro è calmo e i mercati sono tranquilli.
Ora è vero che l’economia americana è stata debole per ben dieci mesi, ma è anche vero che da due mesi le cose volgono al meglio. Questo terzo trimestre potrebbe vedere una crescita annualizzata vicina al 3 per cento. Il dollaro non è troppo forte e si è anzi indebolito nei confronti degli emergenti. Borse e bond, dal canto loro, sono stati lasciati lievitare tranquilli in questi mesi di Qe europeo e giapponese mentre la Fed, con l’avvicinarsi delle elezioni, ha evitato di ammonire una borsa che saliva mentre gli utili scendevano. Non è certo se la forza attuale dell’economia americana sia segno di qualcosa di duraturo o se sia invece, come dice David Rosenberg, un semplice spasmo. Ma questa è una ragione di più, da parte della Fed, per cogliere l’attimo e alzare senza che i mercati se ne abbiano a male.
Anche Bce e Banca del Giappone godono, di qui a fine anno, di una finestra di libertà d’azione. L’inflazione è bassa, certo, ma il pilota automatico del Quantitative easing lavora giorno e notte. Le due banche, che a breve faranno il punto della situazione, non saranno costrette ad annunciare nuove mirabolanti misure espansive perché euro e yen, con un dollaro in odore di rialzo dei tassi, rimarranno tranquilli e non si rafforzeranno. Se decideranno invece di allargare comunque il Qe faranno in modo di non indebolire euro e yen, che ora si trovano in equilibrio.
In sintesi, qualunque decisione venga presa dalle banche centrali, i mercati rimarranno nel loro placido e soddisfatto letargo ancora per due mesi. Forse ci sarà qualche modesta esplorazione verso il basso in settembre (effetto settembre, mese stagionalmente negativo, ed effetto Fomc) ma ottobre sarà di nuovo tranquillo. Dopo le elezioni, nella terra di nessuno che va da novembre a febbraio, la Fed, se lo vorrà, sarà più libera di ammonire le borse contro gli eccessi e di farle correggere.
Settembre potrà dunque essere usato per comprare su debolezza bond e azioni. In ottobre sarà meglio alleggerire gradualmente tutte le posizioni, non perché siano alle viste particolari disastri, ma per normale prudenza. Un altro modo utile per impiegare i prossimi due mesi sarà continuare a trasferire fondi dalle utilities ai ciclici e ai bancari. Dollaro da vendere a 1.10 e da comprare a 1.15. Emergenti ipercomprati ma strategicamente ancora positivi.