In una situazione economica che sfiora la deflazione non si potrebbe immaginare una misura più ipocrita e demagogica di quella di istituire un “ contributo di solidarietà” sulle pensioni c.d. più alte. Tanto per cominciare chiamiamo le cose con il loro nome: si tratterebbe di un prelievo fiscale, quindi di un aumento delle tasse.
In secondo luogo esso ricadrebbe, per essere efficace, essenzialmente sulle pensioni medie riducendo il potere d’acquisto della sola categoria sociale che può ancora, a certe condizioni, sostenere i consumi: quel ceto medio, che, peraltro è e si percepisce impoverito. E’ ben noto anche a chi non è economista di professione che in un regime di prezzi decrescenti, con un alto tasso di disoccupazione, una riduzione dei salari e un PIL in continuo calo, non crescono i consumi e gli investimenti, ma il risparmio ( vedi caso degli 80 Euro): il cavallo non beve. In questo scenario una possibile riduzione significativa del reddito del solo ceto sociale che potrebbe avere una maggiore propensione al consumo e la capacità di sostenere la crescita, avrebbe effetti fortemente pregiudizievoli sulla ripresa economica. Tanto più se le risorse prelevate non venissero destinate a sostenere processi di riqualificazione e reinserimento nel mercato del lavoro di lavoratori che si sono trovati, senza loro colpa, privi di salario e di pensione, ma per garantire loro la transizione nel sistema previdenziale.
Come si concilia tutto questo con l’affermazione del Ministro Poletti che l’obiettivo strategico da perseguire per trovare una soluzione permanente a problematiche come quelle della cassa integrazione, degli esodati, della garanzia del percorso lavorativo, previdenziale e assistenziale, sarebbe quello dell’attuazione degli articoli 41 e 46 della Costituzione che delineano un sistema di compartecipazione e di cogestione? E’ ovvio che il perseguimento di questo obiettivo non è raggiungibile se non mediante un’azione continua di graduale adattamento e profonda modifica di comportamenti sindacali e imprenditoriali, di misure parziali coerenti con strategie partecipate e, quindi in un tempo medio-lungo, E’, pertanto, un po’ ipocrita ammetterne la necessità di principio, salvo poi avallare de facto quella che è, ormai la principale attività dei sindacati: la difesa a qualunque costo ( anche se con qualche eccezione) dello status quo dei lavoratori occupati, pubblici e privati. Tanto è vero che si preferirebbe correre il rischio di favorire una possibile deriva deflazionistica e frenare ulteriormente la crescita pur di mantenere in piedi il sistema fallimentare delle casse integrazione anziché far partire al più presto il job act e una politica attiva per la creazione di nuovi posti di lavoro.
Lo dimostra anche il liturgico atto di deferenza nei confronti dell’articolo 18. Tutto ciò sotto le mentite spoglie di un’operazione di perequazione sociale! Ciò nonostante l’ineffabile ministro Baretta non si è fermato a meditare. ma ha rincarato la dose arrivando a sostenere che la stangata fiscale sulle pensioni c.d. alte sarebbe preferibile ad un blocco dei salari pubblici. Come se, un prelievo fiscale diretto sulla maggior parte delle pensioni (già svalutate dalla sospensione dell’indicizzazione) fosse paragonabile ad un mancato aumento delle retribuzioni della P.A., che, con un tasso d’inflazione vicino allo zero, dovrebbe essere, comunque, giustificato da una crescita proporzionale della produttività.
Renzi ha dimostrato finora di sapersi di sintonizzarsi con gli stati d’animo dei cittadini e non gli può sfuggire che gli effetti politici, oltre che sociali, di un intervento tanto pericoloso quanto ingiusto (anche sotto il profilo costituzionale) sulle pensioni e sul reddito dei ceti medi potrebbero fortemente danneggiare il suo disegno politico e l’interesse del Paese. Speriamo che le sue ultime dichiarazioni mettano definitivamente la sordina a trombe o tromboni e ricostituiscano l’armonia dell’orchestra.