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Tabacci: “La sanità lombarda era un’eccellenza dai piedi d’argilla”

Imagoeconomica

Nel periodo marzo-aprile-maggio, la Lombardia è stata l’epicentro mondiale della pandemia di Covid-19 e anche in questa seconda ondata rimane la Regione con il più alto numero di contagi in Italia. I dati complessivi, e purtroppo non definitivi, sono drammatici: quasi 400mila contagi e oltre 21mila decessi, in percentuale si tratta del 40% delle vittime del Paese. A 10 mesi dall’inizio dell’emergenza, nonostante nelle ultime settimane i numeri si siano stabilizzati, la situazione nella Regione rimane oltre il livello d’allerta. Gli ospedali sono in sofferenza, mentre medici e operatori sanitari fanno di tutto per curare quante più persone possibili. Parallelamente non si placano le polemiche relative alla gestione della pandemia da parte della Regione Lombardia. Sono stati fatti degli errori? Ci sono state carenze? Si poteva agire diversamente? Cos’è che ha mandato in tilt il modello lombardo della sanità? Ne abbiamo parlato con Bruno Tabacci, deputato di lungo corso eletto a Milano e presidente del Centro Democratico, che dal 1987 al 1989 ha ricoperto la carica di Presidente della Regione Lombardia e che successivamente è stato assessore comunale al Bilancio nella giunta Pisapia. 

Onorevole Tabacci, la Sanità lombarda è da mesi sul banco degli imputati: come giudica la gestione della pandemia da parte della Regione Lombardia?

«C’è in me una grande delusione e provo una certa sofferenza anche nell’avanzare critiche che però sono assolutamente doverose e necessarie. Ognuno ha potuto rendersi conto in questi mesi così drammatici delle carenze rilevanti che si sono manifestate nella sanità territoriale lombarda. È sufficiente leggere i dati. Già il 10 marzo il rapporto tra malati di virus e ricoveri ospedalieri vedeva il Veneto al 26 per cento, l’Emilia Romagna al 45 per cento, la Lombardia al 75 per cento. Per converso, l’assistenza domiciliare ai malati di virus vedeva la Lombardia al 15 per cento, l’Emilia Romagna al 45 per cento, il Veneto al 65 per cento. Meno di un mese dopo, il 6 aprile scorso, i medici e i chirurghi della Lombardia hanno denunciato con un documento molto preciso la situazione che si riassumeva in un indebolimento progressivo della prevenzione, dell’igiene pubblica, della medicina territoriale a favore della ospedalizzazione, con un ruolo crescente dei privati nel range dell’eccedenza e del conseguente business sanitario. C’è stato allora da parte della Regione guidata da Attilio Fontana il disperato tentativo di ridurre la pressione sugli ospedali, di fatto seminando il contagio nelle Rsa. Con la delibera dell’8 marzo la Regione ha destinato i malati di Covid-19 a bassa intensità ricoverati negli ospedali a sedici Rsa lombarde senza un’adeguata verifica che le strutture fossero adatte ad isolare i contagiati. Il 30 marzo si assegnavano 150 euro al giorno per ciascun degente accettato sulla base di quei criteri, il triplo del costo medio. E così è scattato il grande contagio».

La Sanità lombarda veniva considerata un esempio di efficienza, cos’è andato storto? Si tratta di problemi di vecchia data o di criticità di origine recenti?

«La medicina di territorio avrebbe dovuto essere il punto di forza, ma in questi anni e almeno a partire dalla metà degli anni ‘90 è stata progressivamente trascurata, relegando i medici di base a una funzione burocratica come prescrittori di ricette. Prima di quegli anni la medicina pubblica era assolutamente prevalente, poi il rapporto è cambiato, portando a un eccesso di ospedalizzazioni. Si pensi che la Lombardia ad un certo punto aveva più cardiochirurgie dell’intero sistema ospedaliero francese, una caratteristica che ha determinato l’avvio di un turismo sanitario verso la Regione, ma come si vede purtroppo da quanto accaduto durante la pandemia, la sanità lombarda era un’eccellenza con i piedi d’argilla. Purtroppo in questi mesi non vi è stato un dibattito adeguato sui limiti di questo modello sanitario. La discussione si è incentrata sulle riaperture, dal momento che il peggio sembrava passato. Così oggi paghiamo severamente la diffusa disinvoltura dei mesi estivi e la polemica, anche politica, sulla pericolosità di prorogare a fine luglio lo stato d’emergenza. Siamo ripiombati nel caos con una penosa tendenza al gioco dello scaricabarile tra Governo e Regioni».

Qual è oggi, durante la cosiddetta seconda ondata, la situazione in Lombardia?

«Permangono la pressione ospedaliera e la debolezza della struttura sanitaria territoriale con una crescente sfiducia nel rapporto tra medici di base e medici ospedalieri, mentre invece sarebbe necessaria una solidarietà più intensa tra di loro in un servizio sanitario perfettamente integrato. 

Ho constatato, come ha rilevato opportunamente in questi giorni il Professor Silvio Garattini, che i numeri del Covid sono drammatici, ma non c’è solo il Covid. In Italia ogni anno ci sono quasi quattrocentomila morti per patologie tumorali e infarti. Se non ci sono sale operatorie e posti letto negli ospedali, cosa ne sarà dei malati di queste patologie?

Purtroppo la Lombardia per affermare la sua centralità nella sanità italiana avrebbe dovuto tracciare una linea chiara, non lasciare la responsabilità sulle spalle dei medici e del personale sanitario, peraltro in una condizione di crescente incomunicabilità tra chi opera in strutture diverse».

Attualmente a Milano e in Lombardia sembrano esserci enormi problemi anche con i vaccini anti-influenzali che sono quasi introvabili. Cosa è andato storto?

«Quello dei vaccini antinfluenzali è un pasticcio. Non ce ne sono a sufficienza perché la Regione non li ha ordinati in tempo. Su circa 3,5 milioni di dosi necessarie a coprire anziani e bambini, sono state strapagate poco più di 2 milioni di dosi, con il risultato che oltre un terzo dei cittadini oggi non è coperto. Ovviamente chi può andare al San Raffaele, pagando 90 euro per un consulto telefonico e 450 per l’assistenza domiciliare in caso di positività al Covid non ha questi problemi. Ma gli altri? La sanità è un diritto e come tale va organizzato». 

Sorge spontanea una domanda: cosa succederà quando si dovrà gestire la distribuzione di massa del siero anti-Covid. Pensa che sia il caso di ricorrere a soluzioni straordinarie? Negli ultimi giorni, ad esempio, si è ipotizzato l’impiego dell’esercito.  

«L’esperienza lombarda della gestione del vaccino contro l’influenza getta un’ombra inquietante sulla distribuzione di massa del siero anti Covid quando arriverà il momento di occuparsene. L’organizzazione territoriale della gestione sarà decisiva e non potrà che essere centralizzata. Certamente l’esperienza della Protezione Civile sarà molto importante, anche se la specializzazione di questa istituzione è cresciuta attorno ad eventi calamitosi territorialmente puntuali e in questo caso si tratta invece di coprire contestualmente tutto il territorio nazionale. Sì, a mio parere anche l’esercito potrà contribuire nella fase di distribuzione per assicurare l’ordine e diffondere sicurezza e serenità».

Qual è la sua opinione sul dibattito in corso relativo alla gestione da parte del Governo del piano sui vaccini anti Covid-19 e alle misure da attuare per le festività?

«Ci auguriamo che il Governo e il ministro Speranza in questi giorni provvedano ad elaborare e a presentare in Parlamento il piano sui vaccini. Bisognerà però chiarire che tutto non potrà tornare come prima, non abbiamo bisogno di questo cattivo messaggio e questo vale anche per le vacanze natalizie. Non facciamoci prendere come questa estate dal raptus dell’apertura delle discoteche. Il Covid-19 ha avuto il merito drammatico di indicarci anche una diversa qualità della vita. Bisogna recuperare lo spirito di marzo, quando il Paese dimostrò nel profondo di avere capito la situazione. Occorre ricordare i morti dando sicurezza e speranza ai vivi. Questo deve essere lo spirito di questo Natale».

Torniamo alla Lombardia, quali cambiamenti dovrà affrontare la Sanità regionale dopo la pandemia? 

«È necessario ripensare la sanità dedicando risorse e investimenti alla prevenzione e alla ricerca. Purtroppo il meccanismo della presa in carico dei malati sul territorio è molto delicato, con il risultato di mettere i medici di base in tensione perché assediati da pazienti che si sentono abbandonati. Il medico di famiglia deve essere supportato e sostenuto dall’azienda sanitaria, diversamente subentra la sfiducia che può portare al disimpegno. Dobbiamo poterci fidare ancora sia della politica che della scienza. In questi mesi le istituzioni politiche non hanno trovato la modalità per realizzare un’efficace collaborazione per prevalente responsabilità delle Regioni e i virologi si sono distinti in polemiche inutili e strumentali. Questo ha messo il Covid in un circuito di discussioni e di polemiche tra tifosi come un tempo si faceva per il calcio nel bar del paese. Per la politica lombarda si tratta di ripensare profondamente il suo modello sanitario, trovando un nuovo equilibrio tra pubblico e privato. Occorre anche reimpostare la medicina del territorio che deve diventare la priorità assoluta». 

Come? 

«Bisogna investire sui giovani medici, dando loro la consapevolezza che la loro professione, anche se realizzata al servizio delle famiglie, non ha una dignità e una professionalità diversa da quella esercitata nelle strutture ospedaliere. Se necessario, per fare questo, si può pensare anche a una revisione dello stato giuridico dei medici di base».

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