E, alla fine, che liberalizzazione sia. Non stiamo parlando di quelle che tra mille ostacoli il governo Monti sta portando avanti in Italia, ma dell’apertura dei mercati finanziari della Cina ai capitali stranieri.
Sembra infatti, secondo quanto sostiene il Financial Times, che la Cina sia pronta alla svolta storica: dopo tre decenni di crescita esponenziale, che l’hanno portata ad essere la seconda economia al mondo, sta finalmente per liberalizzare i movimenti di capitali, aprendo anche agli investimenti esteri. Cosa che finora Pechino si era ben guardata dal fare, chiusa nel conservatorismo del regime che da sempre impone severi controlli governativi sui flussi di capitali per schermare la propria economia dalla crisi finanziaria internazionale.
Ma il fortino sta per cadere, su pressione del Fondo Monetario Internazionale e soprattutto della Banca Mondiale, che in collaborazione con un importante think-tank di Pechino sta spingendo il colosso asiatico ad avviare questo processo di liberalizzazione. Tale invito è stato finora raccolto, nonostante qualche resistenza, dal premier Wen Jiabao: “E’ una priorità del governo”, ha detto.
Convinzione corroborata dall’opinione di diversi analisti, tra cui Liu Ligang di ANZ, che sulle pagine di Ft apre più di uno spiraglio: “La resistenza contro la liberalizzazione non è più veloce e forte come prima”.
In effetti, dalle parti di piazza Tienanmen si staranno rendendo conto che intrappolare i soldi in Cina, dati alla mano, ha comportato un’impennata dei prezzi degli immobili e un’inflazione sempre più alta. E allo stesso tempo l’apertura dei mercati darebbe ai capitali stranieri l’accesso a scorte e obbligazioni, il che contribuirebbe a trasformare il renminbi in una valuta globale e potenziale rivale del dollaro.
Ma come ogni svolta, anche questa avrà bisogno di parecchio tempo. Molti funzionari e consulenti del governo cinese restano infatti prudenti. Non quelli però che in collaborazione con la Banca Mondiale hanno stilato il rapporto per sollecitare le autorità al cambiamento. Tra loro c’è Songcheng Sheng, che sul Financial Times invoca non solo la riforma, ma in tempi rapidi: “Un approccio graduale rischierebbe facilmente di ‘attorcigliarsi’ e diventare negativo. Essere prudenti non significa aspettare per sempre”.
Il rapporto di cui Sheng è coautore delinea le tre fasi della riforma. La prima, nel corso dei prossimi tre anni, è di spianare la strada per ulteriori investimenti cinesi, visto che, spiega lo stesso consulente, “il ritiro delle banche occidentali e sulle società ha liberato lo spazio per gli investimenti cinesi” e ha presentato una “opportunità strategica”. La seconda fase invece, da tre a cinque anni, dovrebbe accelerare i prestiti oltremare del renminbi, specialmente a sostegno di accordi commerciali.
Infine, a lungo termine, nell’arco di 5-10 anni, agli stranieri deve essere data più libertà di investire in azioni, obbligazioni e immobili cinesi. Allo stato attuale questo a dire il vero già avviene, ma in piccole quote e soggette ad un processo di approvazione ancora troppo lento.