Il Sud è indietro rispetto al resto del Paese. Un divario che non si vedeva dagli anni ‘80, quando nel bene e nel male era in piena attività la Cassa per il Mezzogiorno. La questione meridionale entra ed esce dall’agenda politica che ora sembra volerla riposizionare nello scadenzario della spesa pubblica, ora ne trascura le peculiarità. Eppure il PNRR firmato da Mario Draghi destina alle Regioni del Mezzogiorno il 40% della dotazione complessiva. Infrastrutture, economia circolare, Pubblica Amministrazione, capitale umano, capacità di spesa, sono i grandi capitoli su cui si gioca la nuova partita per superare il divario con il resto d’Italia. Osservatorio privilegiato di questa dualità è da sempre la SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno. Abbiamo intervistato il Direttore Luca Bianchi, economista ma con esperienze anche di amministratore pubblico.
Direttore Bianchi, Lei ha detto “per 15 anni abbiamo tenuto spento il motore del Mezzogiorno”. I dati, purtroppo, non La smentiscono. Ma da chi è dipeso?
“Da anni la SVIMEZ ha evidenziato l’esistenza di un doppio divario, tra Italia ed Europa e tra Sud e Nord, che il Covid ha ulteriormente allargato. È mancata una visione ‘unitaria’ della stagnazione italiana. Un Paese che ha smesso di investire, per carenza di risorse ma soprattutto per incapacità progettuali e attuative, al Nord come al Sud, non può che aumentare le sue disuguaglianze interne. La spesa per investimenti è passata in Italia da 59,4 miliardi del 2007 (il 3,7% del PIL) a 34,6 miliardi nel 2018 (il 2,1% del PIL). È inevitabile che, proprio dove è più incompleto il livello di infrastrutturazione, gli effetti sulle potenzialità di crescita sono assai più forti. È quindi l’intonazione generale della politica economica nazionale – priva di una strategia industriale e infrastrutturale in grado di controbilanciare gli effetti di ampliamento delle disuguaglianze tra persone e territori – che ha condizionato profondamente il processo di convergenza tra le due aree del Paese e ha indebolito l’economia italiana”.
Poi è arrivata la pandemia…
“Si. È in questo quadro di mancato sviluppo che già prima della crisi scatenata dal Covid-19 la redistribuzione della ricchezza è entrata in un gioco a somma zero in cui ciò che si dà ad una parte la si sottrae ad un’altra, favorendo una continua contrapposizione degli interessi tra Nord e Sud che ha portato alla perdita di senso dell’unità del Paese; ha aumentato la conflittualità territoriale finendo per indebolire entrambe le aree nella competizione globale”.
La Svimez, quindi, ha visto bene. Ma Lei non pensa che la narrazione di un Nord che non si riprende senza il Sud stia scadendo nella retorica?
“Assolutamente no. Ce lo conferma l’esperienza del passato che un incremento significativo del tasso di crescita nazionale si può realizzare, come avvenuto nel boom economico, solo con il contributo decisivo delle aree più deboli. Ce lo confermano i dati sulla forte interdipendenza tra Nord e Sud del Paese. Chi fa impresa sa benissimo che le filiere sono lunghe e attraversano tutto il Paese, dal farmaceutico all’aerospaziale. La sfida dello sviluppo sta proprio nel rafforzare le filiere nazionali. Basti pensare inoltre che ogni euro investito nel Sud attiva circa il 30% nel resto del Paese. Infine, ne ha preso atto ‘la nuova Europa’ che con Next Generation EU si è data l’obiettivo di rilanciare la crescita europea concentrando gli investimenti sulla riduzione delle disuguaglianze sociali e territoriali”.
Può chiarire?
“Per la prima volta la politica europea pone al centro della propria strategia la riduzione dei divari, quale componente fondamentale e decisiva della politica di sviluppo. E quando parlo di divari non penso solo ai divari fisici e infrastrutturali, ma anche e direi soprattutto ai divari nell’offerta di servizi essenziali, costitutivi della stessa cittadinanza italiana ed europea, a partire da sanità, istruzione e mobilità”.
Si, ma la nostra burocrazia continua ad essere nemica dello sviluppo e il Sud nonostante il 40% delle risorse del Recovery rischia di più rispetto al resto del Paese. Che ne pensa?
“Sul quantum di risorse destinate alle aree meridionali, non mi appassiona il dibattito sulla quota del 40% prevista dal Piano. Un approccio tradizionale quella delle “quote di stanziamento” che spesso viene smentito dalla spesa effettiva. La vera sfida, soprattutto per il Sud, è sulla capacità di spendere bene le risorse disponibili”.
Sta parlando di capacità amministrativa o sbaglio ?
“La qualità amministrativa è decisiva per raggiungere effettivamente quella quota di spesa. Per quel che riguarda la PA italiana, e ancor più quella del Sud, non c’è dubbio che abbia ridotto negli anni quadri, dirigenti e dipendenti a causa del mancato turnover. Per di più ha un numero sempre più basso di laureati e mancano al suo interno le competenze che servono per dialogare con l’Europa e predisporre proposte progettuali di livello.”
Regioni e Comuni rivendicano più centralità nella spesa dei fondi del PNRR per i servizi ambientali, oltre che per la digitalizzazione e i servizi alle persone. È una rivendicazione giusta o non c’è il rischio di un fallimento?
“Il PNRR è una politica nazionale che necessita di una forte strategia nazionale ed una identificazione degli interventi coerenti con tale strategia. Non ci possiamo permettere una frammentazione localista delle programmazioni se non vogliamo ripetere la frammentazione che caratterizza l’utilizzo dei fondi della politica regionale di coesione. All’interno di tale strategia però non possiamo sottovalutare il fatto che la messa a terra degli interventi dipenderà invece dal ruolo decisivo degli enti locali quali soggetti attuatori degli investimenti”.
Entriamo nel merito, allora.
“Dai primi bandi a valere sul PNRR emergono carenze progettuali delle amministrazioni territoriali meridionali, le quali rischiano di non essere capaci di accedere a quei fondi, rendendo vana anche la quota del 40%. Il caso eclatante è stato quello del bando nel settore degli investimenti idrici del Ministero dell’Agricoltura. La Regione Sicilia, caratterizzata da maggiori carenze infrastrutturali, ha preso zero euro perché nessuno dei progetti presentati aveva raggiunto gli standard qualitativi richiesti dall’Unione Europea. La minore capacità progettuale delle amministrazioni meridionali le espone ad un elevato rischio di mancato assorbimento”.
Un paradosso...
“Esatto, nel senso che le realtà a maggior fabbisogno potrebbero beneficiare di risorse insufficienti. Se si vuole scongiurare questo rischio, va rafforzato il supporto alla progettualità di questi Enti, senza illudersi che la soluzione possa esaurirsi nelle nuove assunzioni di tecnici nelle amministrazioni locali del Sud. Soprattutto perché alla luce delle criticità delle selezioni in corso non è detto che le nuove immissioni di personale assicureranno competenze del livello richiesto”.
Veniamo alla transizione ecologica. È tra i punti cardine del PNRR. Che prospettive ci sono per le Regioni meridionali?
“La transizione ecologica è uno degli assi centrali del PNRR, non solo per la quantità di risorse sulla Missione 2 (69,9 miliardi comprensivi di PNRR, React EU e Fondo di dotazione), ma anche per i driver di sviluppo che a questa sono collegate. Dentro questo grande contenitore troviamo una molteplicità di azioni che spaziano, in una visione per la prima volta davvero integrata, dalla questione energetica ‒ funzionale ad agganciare gli obiettivi di decarbonizzazione assunti dall’Unione ‒ alla crescita dell’economia circolare sia nel settore industriale che nella nuova agricoltura. Il Sud può svolgere un ruolo da protagonista. Pensiamo alle rinnovabili: pochi lo sanno, ma già oggi, la capacità eolica installata nel Mezzogiorno è pari al 97% del totale nazionale, mentre il solare rappresenta comunque il 40% del totale. La realizzazione degli impianti rinnovabili necessari per arrivare agli obiettivi di emissione zero sarà accompagnata nei prossimi anni da ingenti investimenti sulle reti che proprio nel Sud hanno alcuni degli snodi centrali. Insomma, ci sono le condizioni per immaginare per il futuro un Mezzogiorno che, oltre a essere un ponte tra i sistemi energetici del Mediterraneo, possa diventare un’area esportatrice di energia pulita”.
Nel Rapporto Svimez del 2019 si parla di bioeconomia e, appunto, di crescita delle fonti rinnovabili. Ma chi investe al Sud: i privati o sono solo soldi pubblici?
“Quando parliamo di bioeconomia circolare stiamo in realtà trattando un meta-settore che vede coinvolte quelle imprese in grado di coniugare l’uso sostenibile delle risorse naturali con le innovazioni della nuova rivoluzione industriale in corso. È dunque un terreno di gioco vastissimo e con ampie prospettive. Non a caso i principali studi sono concordi nell’evidenziare una migliore capacità di resilienza di fronte alla crisi delle imprese attive in questi ambiti e il buon posizionamento dell’Italia ‒ e in essa del Mezzogiorno ‒ nel contesto internazionale”.
Si, ma ci interessano le prospettive.
“Anche qui per il Sud le prospettive sono enormi: pensiamo a come si sta già rimodellando il sistema del made in Italy ‒ l’agroalimentare in primis ‒ nella nuova bioeconomia, ma anche alle prospettive della chimica verde o dei biocombustibili. Come Svimez stiamo studiando il fenomeno da alcuni anni ed è evidente che i risultati potranno venire da un impegno congiunto: dall’alto, a partire dalle scelte del decisore pubblico; dal basso con gli investimenti delle imprese. Il PNRR giocherà un ruolo fondamentale, essendo previsti, tra gli altri, diversi miliardi di interventi. Sul versante delle rinnovabili è chiaro che l’impegno maggiore in termini finanziari verrà sia dal lato istituzionale (Europa, Governo, amministrazioni regionali e locali), sia dal lato bancario ‒ su cui pochi giorni fa è ritornato il governatore Visco sottolineando la necessità di promuovere un’adeguata finanza di supporto agli investimenti ecosostenibili‒ sia dai grandi player nazionali e multinazionali che, in vista del progressivo abbandono dei combustibili fossili nei due step del 2030 e 2050, sempre più dovranno riconvertire le proprie strategie verso la produzione o la distribuzione di energia pulita”.
Se l’orizzonte è questo, Le chiedo quando vedremo realizzati veri sistemi di economia circolare nel Mezzogiorno. Penso alle comunità energetiche, alla gestione dei rifiuti, all’agroalimentare?
“Secondo il Rapporto di Legambiente 2021, sono 32 i progetti di Comunità energetiche già realizzati o in partenza e 15 quelli in fase di avviamento tra comunità e progetti di autoconsumo. Il PNRR dedica a questa voce 2,2 miliardi di euro all’interno della Missione 2. L’obiettivo è favorire la nascita di strutture collettive di autoproduzione estendo la sperimentazione già avviata coinvolgendo Pubbliche Amministrazioni, famiglie e microimprese in Comuni con meno di 5.000 abitanti. È una bella misura di tipo economico, ma anche utile a rafforzare la coesione sociale delle aree interne e dei comuni più piccoli, soprattutto nel Mezzogiorno”.
Pensa che avremo finalmente un salto di qualità?
“Si, ma in questo campo, come negli altri da Lei citati, il vero salto di qualità il Sud lo potrà fare se le amministrazioni locali e il sistema delle imprese saranno in grado di mettere a terra progetti credibili e competitivi. Il tema, come ormai è chiaro, non sono le risorse, ma la capacità di spendere e di spendere bene all’interno di un progetto complessivo e di una visione chiara del futuro del Sud e del Paese. È questa la vera sfida dell’attuale classe dirigente, in grado di segnare il futuro delle prossime generazioni”.