Nei sei mesi che hanno preceduto le elezioni americane il cambio tra peso e dollaro ha oscillato intorno a 19. Durante la notte elettorale, scommettendo su una vittoria della Clinton data per sicura, molti operatori hanno chiuso le loro posizioni al ribasso sul Messico e hanno quindi ricomprato pesos, spingendone la quotazione a 18.50.
Possiamo quindi supporre che, con la Clinton presidente, il peso avrebbe trovato il suo cambio di equilibrio introno a quel livello. Come sappiamo le cose sono andate diversamente dal previsto. È stato eletto Trump e per il Messico è stato come se fosse arrivato un uragano. Il peso è crollato e, a metà gennaio, occorrevano ormai 22 pesos per comprare un dollaro. A parte qualche coraggioso controcorrente, quasi tutti gli esperti raccomandavano in quel momento di stare lontani dal Messico e dalla sua valuta.
Su quel povero paese, si pensava, stavano per abbattersi dazi doganali del 35 per cento. Milioni di messicani emigrati clandestinamente negli Stati Uniti, si diceva ancora, stavano per essere espulsi, deportati sotto il Rio Grande e murati vivi insieme ai loro connazionali dopo essere stati utilizzati come schiavi per costruire il grande e bellissimo muro di cui Trump aveva parlato in ogni comizio della sua campagna per un anno intero.
A quanto quota oggi il peso messicano? A 18.65. Siamo ormai vicinissimi al livello toccato nella notte elettorale e il peso è addirittura più forte rispetto alla media dei sei mesi che hanno preceduto le elezioni. E del resto, sono stati imposti i dazi del 35 per cento? No, e nemmeno se ne sta discutendo. È stato costruito il muro? No, e nemmeno se ne sta discutendo. Sono stati deportati i milioni di clandestini messicani? No, e nemmeno se ne sta discutendo dal momento che è bastato un giudice delle Hawaii a bloccare sul nascere tutto l’imponente piano sull’immigrazione prospettato da Trump in campagna elettorale.
E ancora. È stata cancellata la riforma sanitaria di Obama? No. Sono stati spostati gli equilibri nella Corte Suprema? No. I democratici stanno facendo un ostruzionismo senza precedenti su qualsiasi nomina e i ministri che sono riusciti a insediarsi non hanno ancora nemmeno un vice sul quale appoggiarsi perché anche sulle nomine dei vice c’è ostruzionismo. Proseguiamo. È esploso il disavanzo pubblico americano? No, si è ridotto. Si è visto un dollaro per le infrastrutture? Ancora no.
Si è visto qualcosa di concreto sulla riforma fiscale? No, ma in compenso dal 15 per cento di aliquota proposto per le imprese in campagna elettorale si è passati a discutere del 20, poi del 25 e adesso del 28, dal momento che il border adjustment, la tassa sulle importazioni che aveva fatto gridare al ritorno degli anni 30 e che doveva finanziare l’abbattimento delle aliquote, è quasi scomparso dall’orizzonte. È iniziato il processo di deregulation? Ancora no. La crescita è salita? No, siamo sempre al due per cento. I dati di sentiment sono strepitosi, ma tutti sono così felici da non sentire il bisogno di comprare più auto o più case.
Insomma, le elezioni sono state all’inizio di novembre, fra poco siamo in aprile e dell’uragano di riforme su cui i mercati hanno impostato tutta la loro attività in questi mesi non si è visto ancora nulla. C’è chi ancora pensa che Trump sia dotato di superpoteri, sia pure demoniaci.
Nei giorni scorsi, dopo un discorso ai minatori in cui sdoganava il carbone, qualcuno ha scritto che Trump provocherà l’estinzione della specie umana. E tuttavia gli oppositori più avvertiti, come Larry Summers, cominciano ad accusare Trump di non combinare nulla. Allarghiamo ancora il discorso. L’inflazione salirà, si diceva sei mesi fa. L’inflazione esploderà, si diceva tre mesi fa. Il petrolio che sale, le materie prime in bull market, Trump e le sue infrastrutture, politiche fiscali ovunque espansive, insomma l’effetto sarà tale da sentirsi perfino in Europa, che è tutto dire. E invece no. Con la fine del rialzo delle materie prime l’inflazione nei prossimi mesi si stabilizzerà e in alcuni casi fletterà (in Germania ha già iniziato a scendere velocemente).
Insomma, il paradigma alla base di tutta l’azione di mercato degli ultimi mesi va rimesso in discussione e non è detto che questo abbia conseguenze negative per i mercati, anzi. Se l’inflazione rimane bassa e se le politiche fiscali non saranno così espansive allora la politica monetaria percorrerà più lentamente la strada della normalizzazione, sia in America sia in Europa.
Se il paradigma di Supertrump danneggiava i bond e favoriva solo borse e dollaro, il paradigma di un Trump depotenziato può redistribuire i benefici della reflazione monetaria verso bond ed emergenti (valute, borse e bond) senza per questo danneggiare le borse, sorrette da tassi miti, da una crescita buona (anche se non così buona come si sente spesso dire in questo periodo) e dalla prospettiva che dalla riforma fiscale americana arriverà magari metà della metà di quanto promesso, ma sarà comunque meglio di niente e sarà nella direzione giusta. Dopo la febbre cupa di inizio 2016 e dopo la reazione nevrotica seguita alle elezioni americane siamo forse entrati in una fase di calma e di equilibrio. Godiamocela, finché dura, puntando sulle borse europee ed emergenti.