Sulla mia pelle, firmato alla regia da Alessio Cremonini e con protagonista un superlativo Alessandro Borghi, parla di una vicenda nota: nel 2009 Stefano Cucchi viene fermato per un controllo dai Carabinieri, che gli trovano addosso alcuni grammi di sostanza stupefacente. Viene trattenuto in caserma e durante la detenzione avviene il dramma: percosse da parte di alcuni carabinieri o, come Stefano ripeteva alle molte persone incontrate in quelle ore, una “caduta dalle scale”.
Stefano muore e il film racconta quei giorni, quei momenti di atroce sofferenza, di indicibile crudeltà morale, giuridica. È una storia che richiede giustizia, accertamento delle responsabilità, in un Paese dove spesso tutto viene annebbiato, insabbiato. La verità non è ancora stata accertata completamente e, infatti, lo scorso anno è stato riaperto il procedimento giudiziario a carico dei presunti responsabili del suo decesso in ospedale.
A questo punto, la recensione si divide in due parti: la prima è nel merito della storia, per quello che racconta, per come vengono illustrati i fatti, il contesto, i diversi ruoli che assumono i protagonisti diretti e indiretti. Da questo punto di vista, la sceneggiatura, i testi, appaiono alquanto equilibrati nel tenere il punto tutti gli elementi che compongono la vicenda. Allo spettatore arriva un forte senso di ingiustizia, di privazione, di sottrazione di diritti ingiusto e ingiustificato. Al termine della proiezione rimane quel senso di amaro che solo alcuni film di documentazione sono in grado di lasciare e Sulla mia pelle è tra questi.
La seconda parte si riferisce ad una corrente cinematografica, forse è presto per definirlo “genere” di pellicole italiane dove la scuola originaria è da ricercare nei vari Gomorra, Romanzo criminale, Dogman e via discorrendo. Le luci, le inquadrature, la colonna sonora, i dialoghi si somigliano tutti. Per certi aspetti, sembra tutto già visto. Questo, in un certo senso, rende più fruibile al grande pubblico la percezione della pellicola (ooops… del file) per quanto risulta giù un linguaggio metabolizzato. Allo stesso tempo, però, lo fa apparire qualcosa di già visto.
A questo punto è necessario fare un passo indietro. Il Cinema, con la C maiuscola, è stato ed è tutt’ora solitamente inteso come proiezione di un’opera filmata sul grande schermo. Si usa dire “andiamo al cinema” mentre è più difficile affermare che “andiamo alla televisione” non foss’altro perché lo schermo (cinescopio o digitale) è presente in quasi tutte le case. Tutto questo sta per cambiare: da anni, con l’avvento delle cassette VHS prima, poi con i DVD ed ora con lo streaming, il cinema è arrivato direttamente a richiesta sul comodo divano di casa. Si tratta di altra cosa, la magia, il fascino del grande schermo rimane ineguagliato. La poltrona, il salotto con il migliore degli impianti audio video non potrà mai essere comparato con il Cinema, con la C maiuscola.
Questa precisazione è necessaria perché ieri si è consumato un passaggio importante nel mercato del cinema italiano: il film di Cremonini è uscito contemporaneamente nelle sale cinematografiche e in diffusione streaming sulla piattaforma. I distributori e gli esercenti (Anec) hanno protestato per il danno che viene arrecato: si sottraggono spettatori in un momento e in un contesto di mercato già critico. È nota la polemica sollevata nei due diversi Festival di Cannes e Venezia: al primo non sono stati accettati i film destinati alla visione on line, al secondo non solo accettati ma anche ben accolti e, per quanto riguarda appunto Netflix, anche vincitori.
Il principio che è passato a Venezia è stato che un film si giudica per le sue qualità, per il suo contenuto, in quanto opera artistica, e non per come viene distribuito. Per quanto ci riguarda, condividiamo questa seconda posizione. L’estensione della visione di un film con diverse modalità, verso una platea obiettivamente più estesa delle sale, può fare solo bene al Cinema, in questo caso con la C maiuscola. Ben venga che Sulla mia pelle sia visto in tutto il mondo.