Si dice che le donne siano più pragmatiche, più portate a risolvere i problemi senza perdersi in astratte dispute ideologiche o di puntiglio come invece spesso capita agli uomini. Bene, perché il futuro delle nostre relazioni industriali e, attraverso di esse, i possibili incrementi di produttività delle nostre aziende, è oggi nelle mani di due donne: Emma Marcegaglia, presidente di Confindustria, e Susanna Camusso, segretario generale della Cgil.
Il tema è urgente. Pochi forse hanno notato che ieri il Presidente della Commissione europea Barroso, tra le raccomandazioni rivolte all’Italia ha sottolineato la necessità di riformare il mercato del lavoro per legare maggiormente i salari alla produttività. Insomma bisogna dare più peso ai contratti aziendali e meno a quelli nazionali. Per far questo bisogna rivedere le regole della rappresentanza e capire se un accordo, firmato dalla maggioranza dei sindacati e magari confermato da un referendum tra tutti i lavoratori, deve avere validità per tutti senza margini di ambiguità e senza lasciare spazi ad eventuali azioni legali da parte della minoranza dissenziente.
Le recenti iniziative della Fiat hanno imposto a tutti di porre fine alla infinita melina che sindacati e Confindustria recitano da troppi anni su questo tema. Del resto la Marcegaglia rimprovera giustamente al Governo di non fare le riforme, di non avere sufficiente coraggio per sbaragliare alcuni interessi costituiti che dalle riforme perdono qualcosa o comunque non hanno voglia di rimettersi in gioco. Ed allora proprio sulla materia delle relazioni industriali che è di primaria pertinenza della parti sociali ,come può la presidente di Confindustria invocare cautela e gradualità o addirittura stare ferma? Come si può rimproverare ad altri di non fare le riforme quando non si fanno sul terreno proprio?
Dopo l’annuncio di Angeletti (Uil) di dare la disdetta dell’accordo del ’93 che regola i temi della rappresentanza, la strada è aperta per una nuova proposta che costringa i sindacati a superare le proprie divisioni e ricomponga un quadro di certezze nelle relazioni industriali. E’ giusto, come dice la Presidente della Confindustria, cercare di evitare la conflittualità in fabbrica e che quindi sarebbe preferibile fare le cose senza strappi. Ma se gli interlocutori non sono mai pronti come si fa a costringerli a negoziare seriamente nuove e più efficaci regole capaci di dare nuovo slancio al nostro sistema industriale, che comunque rimane il settore trainante della nostra crescita?
Tecnicamente il problema è molto complesso.Bisogna finalmente arrivare a “pesare” la forza dei vari sindacati così come recita un articolo della Costituzione mai attuato, e quindi dare la responsabilità alla maggioranza di poter firmare accordi validi per tutti. Si può valutare se e quando fare un referendum tra tutti i lavoratori,come accaduto in Fiat, ma poi i risultati devono essere accettati da tutti, così come del resto avviene in qualsiasi sistema democratico.
Appare evidente che qualcuno deve fare il primo passo. E questo qualcuno non può che essere la Confindustria perchè è una mossa coerente con la campagna che sta facendo in favore di una maggiore crescita e quindi riformare le relazioni industriali darebbe credibilità a tutta la sua azione. Certo bisognerà superare le perplessità interne di tanti imprenditori che non hanno voglia di mettere a rischio la pace sociale e quelle di alcuni sindacati che non hanno alcuna intenzione di far rientrare in gioco la Cgil che da anni si è isolata,estraniandosi da qualsiasi problema concreto degli operai e delle fabbriche Se poi non si dovesse raggiungere un accordo per colpa di qualche sindacato, allora, e solo allora, sarebbe legittimo chiedere un intervendo legislativo per modificare le regole della rappresentanza. Ma si spera che le parti sociali capiscano che questa è materia di loro primaria competenza e che è meglio che la politica rimanga sullo sfondo, magari per ratificare con legge le decisioni delle parti, ma non che divenga protagonista in prima persona su temi così delicati che non devono essere sottoposti al rischio di continui interventi parlamentari ad ogni cambio di maggioranza.