Stipendi fermi da almeno 30 anni e i ricchi diventano sempre più ricchi. Questa è la preoccupante fotografia che emerge dal workshop su salari e produttività organizzato dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp). L’Italia è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania e in Francia è cresciuto rispettivamente del 33,7% e del 31,1%. “In queste tre decadi è aumentato il divario tra la crescita media dei salari nei Paesi OCSE e la crescita dei salari in Italia, progressivamente dal -14,6% (1990-2000), al -15,1% (2000-2010) e, infine, al -19,6% (2010-2020)”, scrive l’istituto in una nota. Ma perché in Italia gli stipendi sono così bassi?
A giocare contro l’aumento degli stipendi sono stati molti fattori, a partire dalla competizione con i paesi esportatori di prodotti a basso valore aggiunto, insieme al ricorso alla manodopera a basso costo e bassa qualificazione che hanno schiacciato sia i salari che il livello di produttività nel nostro Paese. Non a caso la produttività del lavoro ha registrato in Italia una dinamica molto più lenta degli altri paesi europei. In sostanza, secondo l’Inapp, i salari italiani sono “in gabbia” intrappolati tra scarsa produttività e esigenze di riduzione dei costi da parte delle imprese.
“Certamente la riduzione del cuneo fiscale inserita nella legge di Bilancio è un passo importante”, ha spiegato il professor Sebastiano Fadda presidente dell’istituto, “perché fa crescere il salario netto senza aumentare il costo del lavoro per le imprese. Tuttavia, è ora necessaria una energica politica industriale finalizzata a rimuovere le cause della stagnazione della produttività e a stimolare la dinamica salariale, con beneficio per la crescita della domanda aggregata e del livello di attività economica”.
Produttività italiana: il doppio mismatch
Durante il workshop è stato sottolineato come molteplici siano le cause della bassa produttività e come tra questi giochi un ruolo decisivo il mismatch, inteso nel duplice senso della carenza di competenze richieste dalle imprese ma anche di sottoutilizzazione delle competenze disponibili. Ciò testimonia la debolezza del nostro tessuto produttivo che non valorizza abbastanza le competenze dei lavoratori istruiti: l’Italia è l’unico Paese del G7 in cui la maggior parte dei laureati è impiegata in attività di routine. Risolvere questo problema potrebbe produrre una crescita della produttività del 10% in Italia.
Ai fini della produttività stagnante sono rilevanti anche le caratteristiche dei nostri imprenditori. Un lavoro recente realizzato in sede Inapp dimostra che le caratteristiche degli imprenditori sono fondamentali per l’adozione di tecnologie innovative e per i possibili aumenti di produttività che ne deriverebbero. In particolare, imprenditori più giovani, più istruiti e di genere femminile sono più sensibili all’evoluzione della frontiera tecnologica. Le aziende a conduzione familiare il cui leader è un membro della famiglia sono invece meno inclini a adottare innovazioni.
Stipendi bassi in Italia, il risultato? Aumento delle disuguaglianze
In Italia, la scarsa produttività e i bassi stipendi nell’ultimo trentennio hanno poi accentuato le disuguaglianze. Prendendo come misura di riferimento il reddito lordo, ossia la somma dei redditi di mercato e da pensione, senza considerare le imposte e i trasferimenti monetari non pensionistici, i dati messi a disposizione dal World Inequality Database (WID) mostrano che nel periodo 1990-2021, in Italia, la quota di reddito totale detenuta dal 50% più povero della popolazione è in costante discesa: si è passati dal 18,9% del 1990 al 16,6% del 2021. Al contrario, la quota del reddito detenuta dal top 1% è aumentata di circa il 60%. Cosa vuol dire? Che i poveri diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi.
La soluzione è il salario minimo?
“C’è chi sostiene che introdurre un salario minimo costituirebbe un elemento di rigidità – ha concluso Fadda – ma il salario minimo, pur nelle complessità da risolvere, va considerato piuttosto come una base da cui partire per costruire un sistema di diritti e condizioni lavorative decenti, che può benissimo coesistere con misure e intese che incrementino produttività e liberino risorse per un aumento delle retribuzioni. Questo è ancora più urgente con l’inflazione che marcia a doppia cifra e un potere d’acquisto sempre più eroso”.
Per questo, l’istituto sottolinea la necessità di revisionare gli accordi che regolano la contrattazione collettiva a partire dal “Protocollo Ciampi” del ’93 – sia a livello nazionale (primo livello) sia a livello aziendale, (secondo livello) – scarsamente utilizzata. Occorre anche vigilare sugli effetti “regressivi” dell’inflazione sulla fiscalità, sia attraverso l’Iva, sia attraverso il cosiddetto “drenaggio fiscale” causato dal superamento delle aliquote fiscali a seguito dell’aumento dei redditi in valore nominale.