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Stellantis, Termoli e la politica industriale del governo Draghi

Imagoeconomica

The winner is… A sorpresa dal cilindro di Carlos Tavares è spuntata la scelta di Termoli come sede della gigafactory Stellantis in Italia, fino all’ultimo contesa tra Melfi, capitale produttiva dell’ex Fiat nel Mezzogiorno e Torino, quella che fu il cuore del gruppo prima della fusione con Peugeot, e che continua ad aspirare ad un nuovo ruolo di Mirafiori, lo sterminato simbolo dell’industria del Novecento. 

E’ stata una scelta relativamente rapida ed indolore ma, soprattutto, una decisione presa sulla base dell’interesse del gruppo dopo un corretto confronto con il governo. Stellantis ha deciso di investire in un sito ove già produce motori termici, esattamente come ha fatto in Francia ed in Germania. E ha scelto un sito collocato in una posizione strategica per la logistica, in un raggio di pochi chilometri dal cuore delle produzione del Centro Sud.  

Scontate e comprensibili le reazioni locali. «Il governo ha fatto da comparsa, facendo scegliere all’azienda, e Torino è stata umiliata», dice il numero uno della Fiom Piemonte Giorgio Airaudo. Il governatore del Piemonte, Alberto Cirio, e la sindaca di Torino, Chiara Appendino, che avevano chiesto un incontro al premier Draghi, «si sentono traditi e arrabbiati». Oggi incontreranno sindacati e associazioni di categoria «per chiedere spiegazioni a Roma».

Ma l’epoca delle “spiegazioni a Roma” sembra finita. Il governo, una volta raggiunto l’obiettivo di una fabbrica di batterie in Italia, si è ben guardato dal sostenere lobbies locali. Anche perché il “rapporto non risolto” tra Torino e la “sua” fabbrica (come rilevato a suo tempo da Sergio Marchionne) appartiene ormai alla storia. In questi giorni viene posta la prima pietra della Città delle Scienze, segnale della Torino che verrà, ove Leonardo e Stm pescano più laureati del Lingotto.

Il caso Stellantis, in un certo senso, è un buon esempio del metodo Draghi in materia di politica industriale. Il governo ha voltato pagina rispetto alle suggestioni del modello Iri 2 o del Fondo Sovrano all’italiana care ai Cinque Stelle ma anche ad una fetta consistente del  Partito Democratico. 

Il laboratorio del nuovo corso è senz’altro la Cassa Depositi e Prestiti di Dario Scannapieco. Proprio oggi è stato annunciato che la Cassa sottoscriverà un’obbligazione CDP della durata di 7 anniemessa da Intesa Sanpaolodel valore nominale di 1 miliardo di euro, che sarà integralmente impiegata dalla Banca “per erogare nuovi finanziamenti a MidCap e PMI italiane finalizzati ad investimenti sul territorio nazionale”. I capitali (massimo 25 milioni per non meno di 24 mesi) consentiranno un miglior accesso al credito “riducendo il costo del finanziamento e contribuendo a ottenere nuova liquidità al fine di superare la fase ancora critica post pandemia o di finanziare nuovi investimenti per la crescita e il recupero della competitività”. 

Non è una novità assoluta, forse, ma un buon esempio della ricetta Draghi: dare alle aziende i mezzi perché adottino le misure necessarie per investire, crescere o, come è opportuno, rafforzino il patrimonio in vista di un M&A. E’ assurdo che un Paese che dispone di 1.800 miliardi di liquidità nei conti correnti più le risorse collocate nel gestito, lesini il capitale necessario alle imprese, un tallone d’Achille che, una volta esaurite le varie moratorie, tornerà a pesare sulle prospettive della competitività del sistema. Il messaggio dunque è: meno barche o Porsche (semmai una Ferrari), cari industriali. Ma anche meno debiti in banca.    

Uno schema che, nel tempo, dovrà fare scuola anche per i Big: addio alla rete unica Telecom/Open Fiber. Il futuro dell’ex Incumbent passerà dagli investimenti nel cloud o nello streaming dal calcio. E lo stesso vale per WeBuild, un investimento con grandi prospettive in cui Pietro Salini non farà fatica ad attrarre partner privati liberando risorse preziose. E così via, senza trascurare i “buchi neri”, da Ita ai conti della Rai.   

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Categories: Economia e Imprese