I colossi Big Tech – Google, Facebook, Amazon, Apple e in parte anche Microsoft – possono dire addio al monopolio assoluto del Web. È cambiata l’aria sia in Europa che negli Usa e sulla sconfinata prateria di Internet sono piombati due importanti regolamenti europei mentre dall’altra parte dell’Atlantico l’amministrazione Biden sta spingendo per un’ipotesi di “spacchettamento” dei giganti digitali. Impensabile fino a relativamente poco tempo fa.
Dopo anni di dominio incontrastato, ora le loro attività sono finite nel mirino di governi e Antitrust: in gioco ci sono concorrenza, regole, democrazia. Ma cosa sta succedendo in concreto? Cosa cambierà, e quando, per l’informazione digitale dopo l’approvazione del Digital Services Act del Parlamento europeo?
“Per rispondere a quest’ultima domanda è necessario chiarire alcuni aspetti preliminari ma da subito posso dire che l’approvazione da parte di Commissione Ue, Consiglio e Parlamento europeo del Digital Services Act (Dsa) e del Digital Markets Act (Dma) segna la riscossa dei poteri pubblici in un settore delicatissimo e fondamentale, con implicazioni per la stessa democrazia. Si delinea un cambio di strategia rilevante rispetto al sostanziale monopolio digitale dei giganti del Web che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni. Molte cose cambieranno e la prima è che, sul piano delle regole si interviene per limitare il ruolo predominante dei poteri privati sul mercato digitale. La linea di tendenza è chiara, ma siamo solo all’inizio di un processo: seguirà una fase di assestamento e di miglioramento progressivo. Il risultato concreto di questo percorso lo vedremo tra qualche anno”. A rispondere, in questa intervista a FIRSTonline, è Guido Stazi, segretario generale dell’Antitrust italiano e profondo conoscitore dei mercati digitali globali. Con Stefano Mannoni, ex commissario Agcom, ha pubblicato due libri – lo scorso anno Sovranità.com e nel 2018 Is competition a click away? (entrambi con Editoriale Scientifica) – che hanno messo a nudo le dinamiche e i modelli di business dei giganti del Web. Giganti che hanno clamorosamente aumentato il loro fatturato complessivo nel periodo della pandemia salendo alla vertiginosa cifra di 1.400 miliardi di dollari (+27%) nel 2021. È più del Prodotto interno lordo della Spagna, tanto quanto la ricchezza prodotta in un anno dal Brasile. Cifre che indicano da sole lo straordinario potere di mercato dei Big Five, e le distorsioni che ne possono derivare.
Quando diventeranno operativi i nuovi Regolamenti europei sul mercato digitale?
“I Regolamenti sono ancora in bozza e devono essere pubblicati sulla Gazzetta ufficiale Ue. Ciò avverrà entro la fine dell’anno. Da lì in poi per l’operatività devono trascorrere sei mesi per il DMA e almeno il doppio per il DSA, per dare modo alle aziende di organizzarsi. Si tratta di due regolamenti distinti e distinti sono obiettivi e risultati che intendono conseguire”.
Partiamo dal Digital Services Act: oltre a contrastare le fake news, non crede che si debba arrivare ad una seria regolamentazione dell’informazione digitale che costringa i grandi motori di ricerca a rivelare gli algoritmi con cui indicizzano le visite, affidandone il controllo a organismi pubblici indipendenti?
“Il Dsa vuole superare l’anomalia del regime di irresponsabilità sui contenuti concesso finora alle grandi piattaforme digitali private. Impone obblighi di controllo e rimozione dei contenuti illegali che circolano sulle piattaforme. Quindi inciderà sulla pubblicazione di fake news e su molta “spazzatura” che oggi si può trovare su Internet. Arrivano anche standard più elevati di trasparenza: la Ue, sia pure in una logica di riservatezza, vuole accedere agli algoritmi che selezionano le notizie. Finisce il dominio assoluto detenuto dai privati, in linea di principio. Per conoscere i dettagli, però, dovremo vedere come il DSA sarà adottato, a cascata nei singoli Paesi, e applicato. Diverso è il tema della profilazione degli utenti Web. La data economy è costruita sulla raccolta delle informazioni che lasciamo andando in rete e che le grandi piattaforme hanno avuto l’abilità di rendere attraenti per il mercato pubblicitario. E questo ha generato delle distorsioni a cui si vuole rimediare con il Digital Markets Act. Le due questioni sono comunque intrecciate”.
Il Digital Markets Act introduce la novità dei controlli ex ante sulla concorrenza, mai sperimentati finora. È una rivoluzione?
“Incide sui modelli di business delle grandi piattaforme digitali, sui meccanismi che determinano gli enormi introiti dei Big Tech e per questa ragione ha avuto una vita più difficile. Incide su comportamenti anticoncorrenziali che sono spesso già stati sanzionati delle Autorità Antitrust, anche da quella italiana. Voglio qui ricordare gli 8 miliardi di sanzioni inflitte dall’Antitrust europeo a Google ma anche i circa 170 milioni dell’Antitrust italiano del Presidente Rustichelli sul caso Apple-Amazon, 100 milioni a Google sul caso Enel X o la sanzione da 1,2 miliardi alla sola Amazon”.
Perché allora si è ritenuto necessario introdurre poteri ex ante? E perché il potere di esercitarli resterà in esclusiva all’Antitrust europeo?
“L’applicazione del Dma sarà un’esclusiva della Commissione Ue per evitare frammentazioni a livello nazionale che avrebbero potuto generare difformità tra un Paese e l’altro. Le Authority Antitrust nazionali saranno coinvolte nelle indagini di mercato disposte da Bruxelles e la loro attività ha ispirato il nuovo Regolamento. Le regole ex ante sull’eccesso di concentrazione o sull’abuso di posizione dominante si rendono necessarie quando i mercati non sono concorrenziali e generano distorsioni. Così è successo in passato con le Tlc”.
Nel caso dei Big Tech, cosa stava accadendo?
“La cosa impressionante a cui abbiamo assistito, e lo denunciamo nel nostro ultimo libro, è la crescita esponenziale dei cosiddetti gate keepers: in pochi anni Google è arrivato a controllare il 95% della quota di ricerche online, solo il 5% viene suddiviso tra tutti gli altri motori di ricerca. Ancor più impressionante è la dinamica della pubblicità generata dalla profilazione degli utenti di cui abbiamo appena parlato: in dieci anni – tra il 2010 e il 2021 – la quota di online advertising è passata dal 5 al 45 per cento, quella della stampa è scesa dal 24 all’8%, riducendosi di due terzi. La Tv è passata dal 52 al 41 per cento. È chiaro che tutto questo incide sulla qualità dell’informazione e porta all’impoverimento della stampa di qualità. Aggiungo che la pubblicità rappresenta quasi il 70 per cento del fatturato di Google e la quasi totalità degli introiti di Facebook. Ma i giganti Tech assorbono anche il 50% del valore della pubblicità che viene venduta sul Web per effetto delle commissioni sull’intermediazione pubblicitaria che riescono a garantire attraverso complessi meccanismi d’asta. Come è potuto succedere che la formazione di questi potenti monopoli sia avvenuta nella generale indifferenza? Lo denunciammo nel nostro primo libro. Ora si cambia registro grazie anche alla coraggiosa strategia intrapresa dall’Europa che ha fatto da apripista e da modello per gli Usa che, pure, sembrano decisi ad intervenire. Ma è un processo in divenire, ci vorrà tempo”.
Tirando le conclusioni, l’Europa vuole riprendersi la sovranità digitale perduta e vedremo se e come ci riuscirà. Ma la trasformazione dell’informazione dalla carta al digitale non imporrebbe anche un ripensamento sui criteri di finanziamento pubblico che oggi escludono proprio le testate online?
“Il New York Times è il primo grande giornale che è riuscito ad invertire il cammino in discesa, aumentando le risorse rispetto al periodo precedente la rivoluzione digitale. Il trend dell’informazione, non c’è dubbio, è quello. Nel momento in cui il governo ritiene utile offrire contributi diretti alle testate, è opportuno pensare a forme di incentivazione che favoriscano la diffusione di contenuti di qualità anche nell’informazione online. Per esempio, con iniziative rivolte ai nativi digitali che gli consentano di scegliere più consapevolmente i contenuti che il Web mette loro a disposizione”.