Le agenzie di rating, ormai lo abbiamo capito tutti, guardano al passato più che al futuro. Quando provano a prevedere vanno spesso incontro a gravi infortuni. Alla vigilia delle ultime presidenziali americane, nel giugno 2016, Moody’s pubblicò uno studio in cui si calcolava che le politiche economiche proposte da Trump, applicate integralmente, avrebbero comportato una lunga recessione e la perdita di un ingente numero di posti di lavoro. Molti altri lo dissero, naturalmente, ma sappiamo che finora è successo esattamente il contrario. Nelle prossime settimane le agenzie di rating torneranno a esprimersi sull’Italia ed è probabile che limeranno qua e là il loro giudizio. È da più di un decennio, del resto, che le agenzie tolgono A (e ora anche B) al debito dei paesi sviluppati. Per un po’ di anni, affascinate dalla globalizzazione, avevano compensato questa severità con un miglioramento continuo del rating dei paesi emergenti, salvo essere prese in contropiede, a partire dal 2011, dal deterioramento dei fondamentali economici e della posizione finanziaria di alcuni importanti paesi di questo gruppo.
È possibile che, in occasione di questi abbassamenti del rating dell’Italia, lo spread tra Btp e Bund torni temporaneamente a salire, così come si allargherà probabilmente quando la Commissione europea, in novembre, esprimerà le sue perplessità sulla manovra, mettendo magari in luce il carattere una tantum di alcune entrate fiscali. Avanziamo però l’ipotesi che il climax dell’attacco ai titoli italiani sia alle spalle, che si apra ora una fase intermedia di neutralità guardinga ma non ostile e che a fine anno lo spread sia più basso di oggi in una misura non drammatica ma tale da giustificare un trade in questa direzione. Argomentiamo questa ipotesi ricordando prima di tutto che, nel clima infuocato della battaglia politica, sono circolate nelle passate settimane ipotesi di disavanzo che calcolavano il costo di tutte le promesse elettorali e che abbiamo visto arrivare fino all’8 per cento del Pil. Ora, anche se negli ultimi tempi è diventato di moda nel mondo onorare le promesse elettorali, nemmeno Trump è riuscito a fare tutto e subito, tanto che nei prossimi giorni sarà costretto a minacciare di bloccare il bilancio federale se non vi compariranno i soldi per costruire il muro sulla frontiera con il Messico (pur sapendo che anche questa volta la sua minaccia cadrà nel vuoto e il muro non si farà).
Avendo fatto l’orecchio a cifre di disavanzo italiano così imponenti, qualsiasi cosa cada ora sotto il 3 per cento appare austera e severa e fa alzare al cielo un sospiro di sollievo. Dopo tutto, su questi livelli, il disavanzo italiano su Pil sarà nel 2019 pari a quello francese e sarà meno della metà di quello degli Stati Uniti. La Commissione europea, dal canto suo, farà i suoi rilievi ma avrà l’accortezza politica, crediamo, di non fare guerra all’Italia, anche perché l’Italia, sia pure di pochissimo, riuscirà comunque ad abbassare il suo stock di debito nel 2019. Fare guerra in queste circostanze significherebbe regalare ulteriore spazio alle forze euroscettiche in cambio di nulla. Quanto alle agenzie di rating, dire che il rischio Italia è un rischio di instabilità politica non sarà così facile quando il governo italiano ha una percentuale di consensi e una maggioranza parlamentare che quasi tutti gli altri paesi europei occidentali non raggiungono. Disinnescata la mina italiana (con le doverose cautele del caso), saranno i dintorni dell’Italia a offrire occasioni di incertezza. La settimana scorsa abbiamo licenziato questa nota scrivendo che la disponibilità europea ad azzerare i dazi sulle auto insieme all’America avrebbe aperto la strada a un accordo e provocato un recupero delle borse europee.
Poche ore più tardi un tweet di Trump ha però riaperto tutti i giochi. Possiamo anche azzerare le tariffe, ha detto Trump, ma sappiamo bene, noi e voi, che l’Europa non comprerà mai macchine americane. Per fare scendere l’irragionevole surplus europeo dovrete rivalutare l’euro. Siete cattivi come la Cina, ha concluso con livore, siete solo più piccoli di lei. Da questo tweet abbiamo la conferma che l’Europa è al secondo posto nella black list di Trump. Per lui le tariffe, a zero o a infinito, non sono un bene o un male in sé, ma sono interessanti come mezzo per i due veri fini, il riequilibrio del commercio con l’Europa e il ridimensionamento politico dell’Unione controllata dalla Merkel. Se l’euro non si apprezzerà rapidamente (cosa oggi un po’ più possibile visto il calo della tensione sull’Italia ma ancora strutturalmente difficile finché la Fed continua ad alzare i tassi ogni tre mesi) Trump non esiterà a mettere i dazi sulle auto tedesche, a costo di rimangiarsi l’offerta di azzerarli. La Germania, non l’Italia, è oggi sotto assedio. Al punto che la Merkel, proponendo l’europeista di destra Weber come successore di Juncker, sembra mostrarsi disponibile a un compromesso con Ungheria e Italia.
Certo, la Merkel gioca su più tavoli con la consueta abilità, ma la sua forza, sotto i colpi di maglio di Trump e della chiusura di un mercato emergente dopo l’altro, continua a calare. Detto questo, la sottoperformance dell’Europa rispetto all’America sta cominciando ad assumere proporzioni imponenti. A fine anno, quando si farà il consuntivo dell’anno trascorso, si dovrà riconoscere che l’Europa ha goduto ancora di un buon livello di crescita (anche se il 2019 appare decisamente più incerto) e un recupero delle sue borse sarà probabile.