Non sarà lo spettro dell’inflazione a intralciare la ripresa dell’economia statunitense dopo la pandemia. E nemmeno nel Vecchio Continente ci sarà molto da preoccuparsi. Sembra questo il consensus della maggior parte degli economisti, delle autorità monetarie e della politica nelle due sponde dell’Atlantico. È in corso, comunque, negli Usa e in Europa, un dibattitto tutto da seguire sui possibili rischi legati ad una ripartenza dell’economia accompagnata dall’inflazione. Enrico Spolaore, Seth Merrin Chair alla Tufts University, la seconda più antica di Boston dopo Harvard e sede della prima scuola di diplomazia americana fin dagli anni Trenta, mette nella giusta grandezza i fattori che non dovrebbero farci temere troppo il ritorno di un’inflazione galoppante sul modello degli anni Settanta.
Quali sono le posizioni in campo negli Stati Uniti?
«Se ne discute con interesse dal febbraio scorso dopo un articolo di Larry Summers sul Washington Post. L’ex Segretario del Tesoro già prima dell’ok al mega stimolo da 1,9 triliardi, voluto dall’amministrazione Biden, aveva messo in guardia circa un possibile surriscaldamento dell’economia americana. Il rischio, secondo Summers, è che lo stimolo vada ben oltre quello che servirebbe per riempire l’attuale output gap, ovvero la differenza tra quello che l’economia americana potrebbe produrre e quanto sta attualmente producendo. Summers si chiede: sarà in grado eventualmente la politica monetaria di frenare un’impennata dell’inflazione? E ci saranno poi risorse anche per gli investimenti pubblici nei prossimi anni?».
Oltre all’ex ministro di Bill Clinton, chi c’è a mettere in guardia dal pericolo inflazione?
«Su posizione simili c’è Olivier Blanchard, che ha parlato di rischi legati a un moltiplicatore in grado di surriscaldare troppo l’economia. In generale, però, la maggioranza degli economisti negli Stati Uniti non ritiene che ci siano rischi molto alti legati ad un’inflazione fuori controllo: anzi, molti ritengono che sarebbe peggio fare troppo poco per superare la pandemia. Tra questi c’è Paul Krugman, che consiglia di non ripetere gli errori della crisi del 2009-2011».
Che numeri possiamo aspettarci in Usa e in Europa?
«In un recente paper, il Fondo Monetario ha fatto previsioni sul possibile tasso d’inflazione usando la tradizionale curva di Phillips, la relazione tra disoccupazione e inflazione, e quindi dando molta attenzione alle attese di riduzione della disoccupazione. Secondo gli economisti del Fondo, negli Usa potrebbe essere plausibile nella ripartenza un tasso di inflazione tra il 2 e il 3%. Si tenga conto che il mandato della Federal Reserve è più largo di quello della Bce e oltre alla stabilità dei prezzi mantiene come obiettivo fondamentale la crescita. Personalmente trovo più convincente la posizione di Krugman rispetto a quella di Summers: la crescita e il sostegno del reddito dovrebbero essere le priorità, mentre sembra improbabile un grande aumento dell’inflazione nel breve o medio periodo».
In un articolo recente sul Financial Times anche l’oracolo di Omaha Warren Buffett ha parlato di un pericolo inflazione che potrebbe spaventare gli investitori.
«Già una decina di anni fa, dopo la crisi del 2009-2011, Buffet aveva messo in guardia contro l’inflazione, ma i suoi timori si erano rivelati infondati. Questo non vuol dire che stavolta abbia necessariamente torto, perché quel che succederà dipenderà molto anche dalle aspettative sull’inflazione e da quelle che vengono chiamate profezie che si auto-avverano. Se tutti si aspettano che parta una stagione di inflazione, le imprese ritoccheranno i listini, i lavoratori chiederanno salari maggiori in previsione degli aumenti dei prezzi, e così via, innescando un meccanismo che si potrebbe autoalimentare».
In molti ambienti economici, in special modo in Europa, l’inflazione rimanda psicologicamente a periodi bui.
«Dieci anni fa Krugman sosteneva che non bisognava temere l’inflazione ma la paura dell’inflazione. Buffett, Summers e Blanchard appartengono a generazioni che si ricordano bene gli anni Settanta e temono che si torni a quel tipo di instabilità macroeconomica. A me pare comunque che la situazione attuale sia piuttosto diversa da quella degli anni Settanta. In ogni caso, adesso le priorità maggiori dovrebbero essere dal lato dell’economia reale: fare il possibile affinché la produzione riprenda rapidamente e che ci siano gli incentivi giusti per lavorare, produrre e investire. Quando si produce di più e in modo più efficiente, l’inflazione diventa un problema molto meno serio. Molto più grave sarebbe ritrovarsi tra un anno a parlare di altri problemi legati al post-crisi, come per esempio di stagnazione e deflazione».
Uno scenario di deflazione è legato a intoppi o passi falsi nelle misure di stimolo per la ripartenza.
«Mi sembra più un tema europeo che americano. Uno studio di Goldman Sachs ha evidenziato che generalmente dopo le guerre c’è un rischio alto di inflazione, mentre dopo le pandemie di deflazione. L’Europa ha perso più reddito e più lavoro degli Usa e potrebbe avere appunto qualche intoppo nell’organizzazione dei piani di stimolo, anche a causa delle maggiori rigidità e dei più complessi vincoli politici. L’Unione sembra meno keynesiana degli Usa in questa fase storica, e l’America si è riscoperta più socialdemocratica degli europei. Negli Usa invece c’è grande ottimismo, le vaccinazioni vanno bene, si sta respirando già la ripartenza e l’amministrazione Biden sta conducendo una politica fiscale molto espansiva, anche troppo secondo Summers e Blanchard. Sempre Larry Summers propone in caso di un surriscaldamento eccessivo dell’economia di alzare la tassazione più che il livello dei tassi d’interesse. Ma qui si apre un capitolo politico e in America nel 2022 ci sono le elezioni di Midterm».
Un’inflazione non eccessiva avrebbe comunque effetti positivi sullo stock dei debiti pubblici occidentali alle prese con le spese collegate alla pandemia?
«È un ragionamento che rischia di spostare l’attenzione dai veri temi. Prendiamo l’Italia: l’economia è stagnante da oltre 20 anni e non cresce la produttività. Il problema da affrontare ora è la crescita reale, che è il modo migliore per ridurre il rapporto tra debito e Pil. L’idea che l’inflazione risolva il problema del debito è illusoria. In Europa c’è la Bce e nessuno si sogna di pensare di monetizzare il debito sfruttando un aumento dell’inflazione».
Anche perché il mandato statutario della Bce è la stabilità dei prezzi con un’inflazione che non deve superare il 2%.
«A maggior ragione se dovesse aumentare in modo significativo l’inflazione, la Bce potrebbe aumentare i tassi con l’effetto di rendere più oneroso per l’Italia finanziarsi sui mercati. E tenuto conto della struttura del debito sovrano italiano potrebbe non essere uno scenario positivo. Abbiamo sotto gli occhi l’esperienza dell’America Latina nei decenni passati per capire che il problema del debito non si risolve certo con l’inflazione».