Il governo ha dato il via libera alla Legge di Stabilità per il 2016. Si tratta di una manovra da circa 27 miliardi di euro che mira principalmente a tagliare le tasse (a cominciare da quelle sulla prima casa), finanziata per due terzi da un incremento del disavanzo e da un terzo da una riduzione delle spese (e aumento di alcune entrate come quelle sui giochi). Anche questa volta la spending review è stata ridimensionata, anzi dimezzata: cinque miliardi di tagli contro i dieci annunciati solo sei mesi fa nel Documento di Economica e Finanza presentato a Bruxelles.
Eppure, vi erano le condizioni affinché l’esito fosse diverso: la nomina di non uno, bensì, due esperti “tagliatori” – un professore di finanza pubblica con un ruolo tecnico e un parlamentare del partito democratico con un ruolo politico – e, soprattutto, l’urgenza di disinnescare le clausole di salvaguardia che rischiano di tradursi in 50 miliardi di euro di maggiore pressione fiscale nel prossimo triennio.
Ridurre la spesa in Italia sembra essere una missione impossibile. Basti pensare che negli ultimi quattro anni, il risultato in comune dell’azione di ben tre diversi commissari alla spending review è stato quello di un incremento – e non di una riduzione – della spesa pubblica: i tecnici hanno, si, proposto delle soluzioni, ma poi i politici le hanno puntualmente bocciate, timorosi di privarsi di uno strumento di facile attivazione per ottenere consenso.
Altri paesi, però, ci sono riusciti. E i loro leader sono anche stati rieletti. L’esempio più recente è quello del Portogallo, dove il primo ministro uscente, Pedro Passos Coelho, ha vinto le elezioni nonostante una campagna elettorale basata sullo slogan: “I soldi sono finiti, si continua con l’austerità”. Non un trionfo (non ha ottenuto la maggioranza assoluta dei voti ed, infatti, ora deve faticare per formare una coalizione), ma pur sempre un successo per un esecutivo che ha tagliato drasticamente la spesa pubblica, riportando il disavanzo vicino al 3 per cento (dal 7,4 per cento del 2011 al 4,5 per cento del 2014). Il paese, dopo un triennio di recessione nel periodo 2011-2013 è ritornato a crescere a ritmi dell’1,6 per cento l’anno, in linea con la media dell’area dell’euro. Anche la disoccupazione ha mostrato un’inversione di tendenza e, dallo scorso anno, è in calo al 14,1 per cento.
Che con l’austerità, ossia con un’azione incisiva di spending review si vincono le elezioni non è una novità. Un simile exploit è riuscito nel maggio scorso anche ad un altro leader europeo, David Cameron. Dopo un primo mandato in cui ha ridotto la spesa pubblica di oltre ottanta miliardi di sterline, licenziato mezzo milione di dipendenti pubblici, Cameron è stato riconfermato alla guida del paese nonostante nei mesi precedenti il voto avesse dichiarato: “abbiamo davanti altri anni di sacrifici”. Sacrifici che fino ad ora non sono stati inutili: la crescita è quasi raddoppiata (dall’1,6 per cento del 2011 al 2,8 per cento del 2014) e la disoccupazione è scesa di due punti percentuali (dal 8,1 per cento del 2011 al 6.1 per cento del 2014).
Il messaggio che arriva dalle elezioni inglesi e portoghesi, ma anche da quelle lettoni degli anni 20019-2014 in cui Valdis Dombrowskis – artefice di un piano di tagli fiscali ben più pesante di quello richiesto alla Grecia -, è stato rieletto per ben tre volte, è che la spending review, nonostante ciò che pensano i politici, piace ai cittadini. Ma solo a certe condizioni. L’esperienza del Regno Unito, del Portogallo e della Lettonia dimostra, infatti, che i tagli fiscali – anche se pesanti – vengono premiati dal voto quando sono strutturali, ossia quando sono percepiti come definitivi (senza il rischio di un incremento futuro delle tasse per far fronte alla loro copertura) e se implementati all’inizio della legislatura.
In sostanza, una quantificazione delle risorse da tagliare, derivante ad esempio dalla riduzione del costo degli acquisti attraverso il potenziamento dell’azione della Consip, è sicuramente il giusto punto di partenza. Ma senza una definizione del futuro perimetro dello stato manca il punto di arrivo, che è ciò che permette di ottenere il consenso dei cittadini alle politiche di revisione della spesa.