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Spagna, Portogallo e Grecia: di nuovo caos

FIRSTonline

Non c’è pace per i Paesi del sud Europa. Spagna, Grecia e Portogallo sono di nuovo nei guai. Le loro vicissitudini politico-economiche tornano a preoccupare l’Europa, sebbene per motivi differenti: la Spagna è senza un Governo da più di quattro mesi e il rischio che le prossime elezioni, ormai praticamente certe, si concludano nuovamente con un nulla di fatto (secondo gli ultimi sondaggi la maggioranza assoluta è lontana per tutti) è molto alto. Il Portogallo dal canto suo non è riuscito a rispettare gli impegni presi in sede comunitaria, nonostante politicamente sia riuscito a trovare una soluzione affidando l’Esecutivo al leader socialista Antonio Costa che dallo scorso 26 novembre guida un fragile Governo di sinistra che sopravvive grazie all’appoggio esterno di Bloco de Izquierda e Cdu.

La Grecia è invece impegnata nell’ennesimo negoziato con l’Ue per ottenere una nuova tranche di aiuti entro il prossimo luglio, mese in cui Atene dovrà ripagare 3,6 miliardi di euro di debiti a creditori interni ed esteri. Il problema è che le casse elleniche potrebbero svuotarsi ben prima. Per questo motivo il ministero della Sanità avrebbe inviato una lettera agli ospedali del Paese nella quale chiede di spostare tutta la loro liquidità su un conto speciale della Banca Centrale.

SPAGNA VERSO NUOVE ELEZIONI

Felipe VI ha cominciato ieri un terzo giro di consultazioni, dopo il tentativo fallito di conferire l’incarico al leader socialista Pedro Sanchez. Ad oggi non sembra esistere una soluzione allo stallo politico cominciato con le elezioni del 20 dicembre 2015 e la clessidra istituzionale sta per esaurirsi. Se entro il prossimo 2 maggio non si riuscirà a trovare un Esecutivo, la nuova tornata elettorale non potrà essere evitata. Il problema è che neanche quella, prevista per il 26 giugno, potrebbe risolvere l’impasse spagnola. In base agli ultimi sondaggi, il rischio concreto che si ripeta lo stesso risultato: i quattro principali partiti accorpati dentro una forchetta di 10 punti e nessuna maggioranza assoluta (176 seggi).

GRECIA A CORTO DI LIQUIDITA’

Atene deve affrontare nuovamente il fantasma default. Le casse dello Stato potrebbero svuotarsi entro metà maggio e senza lo sblocco di una nuova tranches di aiuti, la Grecia non riuscirà a rimborsare i debiti in scadenza a luglio. Nonostante i tentativi di spending review posti in essere negli ultimi mesi (-1,34 miliardi di spesa primaria pubblica nel primo trimestre del 2015) la situazione è di nuovo sull’orlo del baratro. Per questo motivo, lo scorso 21 aprile,  il ministero della Salute ha inviato agli ospedali una lettera nella quale ha richiesto di trasferire tutta la loro liquidità alla banca centrale.

In questo contesto Alexis Tsipras continua a trattare con l’ex Troika nella speranza di sbloccare i 5 miliardi di risorse necessari per pagare i 3,6 miliardi di prestiti in scadenza a giugno e dare un po’ di ossigeno alle casse dello Stato. Ue e Fmi hanno chiesto al Governo ellenico di prevedere una serie di misure di salvaguardia (nuove tasse e nuovi tagli) da 3 miliardi di euro che scatterebbero automaticamente nel 2018 nel caso in cui Atene non riuscisse a rispettare gli obiettivi relativi all’avanzo primario che, in base agli accordi, non potrà superare il 3,5% del PIL.

UE: POSSIBILI SANZIONI CONTRO SPAGNA E PORTOGALLO

Nel mese di maggio la Commissione Europea darà il proprio giudizio sull’andamento delle finanze degli stati Membri. Mentre l’Italia scoprirà se Bruxelles concederà la tanto agognata flessibilità, Spagna e Portogallo potrebbero andare incontro a delle salate sanzioni.

Madrid ha registrato nel 2015 un deficit del 5,1% rispetto ad un obiettivo pari al 4,2%. Ancora peggio ha fatto Lisbona che ha chiuso l’anno con un disavanzo pari al 4,4% a fronte di una previsione del 2,5%.

A questo punto dunque, per la prima volta nella sua storia, la Commissione Ue potrebbe decidere di non voltare lo sguardo dall’altro patto ed imporre le “pene” previste dal Patto di Stabilità che stabilisce sanzioni economiche fino allo 0,2% del Pil per i Paesi che violano le norme comunitarie.

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