La scalata a Chrysler ormai è cosa fatta. Con un esborso minimo e la prospettiva di ridurre i debiti, già oggi sostenibili, con i finanziamenti del Department of Energy e la quotazione della società di Detroit ad un prezzo di mercato di almeno 7-8 miliardi. Il deal dell’anno, insomma, passerà, almeno in parte, per Piazza Affari. Anche perché, come scrive Sergio Marchionne ai dipendenti, “ci sono le condizioni per accelerare il progetto di integrazione”.
Quanto vale la nuova Fiat-Chrysler? Da oggi la domanda è di grande attualità presso gli analisti del mondo dell’auto che stanno rifacendo i conti alla luce dei minori costi per il finanziamento del debito di Chrysler (350 milioni di dollari già risparmiati) in attesa di rifarli ancora quando l’azienda riceverà i sospirati fondi a tasso agevolato (la richiesta è di 3,2 miliardi di dollari) del Department of Enegy, finora bloccati per il debito di Chrysler verso il Tesoro. Una meta che sembra più vicina dopo che lo stesso presidente Obama ha salutato la notizia della restituzione dei fondi prestati al Tesoro come “una pietra miliare” per l’auto Usa. Ma il quesito è ancor più importante per gli azionisti Fiat, alle prese con una società nuova, per dimensioni e obiettivi. Tra pochi mesi, probabilmente meno di sei, il gruppo del Lingotto acquisirà infatti, senza ulteriore esborso finanziario, il 5 per cento che manca per completare la scalata al 51 per cento della società Usa. Una volta raggiunta la maggioranza assoluta non ci sarà alcun ostacolo per procedere al consolidamento dei risultati di Chrysler nei conti di Fiat. Anzi, potrebbe essere già sufficiente la quota già in mano al Lingotto, da ieri socio di maggioranza relativa di Chrysler con il 46 per cento del capitale contro il 45,7 ancora in mano al sindacato. Senza dimenticare che, come è stato reso noto nel comunicato diffuso da Fiat, il Lingotto ha un’opzione su un 40 per cento in mano al sindacato da esercitarsi in rate semestrali dall’anno prossimo al 2016. Entro l’anno, comunque, Fiat disporrà del sospirato 51 per cento, che già risulterà nel consolidato a fine 2011. Insomma, alla prossima assemblea di primavera Marchionne presenterà una Fiat completamente diversa, che nel giro di un anno o poco più è stata rovesciata come un calzino: da conglomerata (quasi) tutto fare, erede della vecchia Fiat dai mille mestieri, a un gruppo focalizzato sull’auto, più forte nelle due Americhe che nella vecchia Europa, con alcuni punti di forza tra gli emergenti (Brasile, Turchia, Est Europa) e la massa critica per risalire la china in Cina e in Russia, i due “buchi” attuali. Insomma, un gruppo da 4 milioni di vetture, contro i due milioni della sola Fiat, con un fatturato che, come ha anticipato il presidente John Philip Elkann, secondo i piani dovrebbe salire a 100 miliardi nel 2014, con 190 mila dipendenti e 55 prodotti nuovi. Ovvero un’azienda che, per dimensioni, può schizzare in alto nella classifica per capitalizzazione della Borsa italiana. Come se Eni si federasse con Total piuttosto che Pirelli con Michelin. Il tutto senza aver squilibrato l’assetto finanziario. Anzi, Fiat, al momento dello “split” ha scaricato una porzione abbondante del carico debitorio sulla sorella Industrial, Chrysler può completare il suo risanamento finanziario con la quotazione a Wall Street entro la fine del 2011. Per carità, le criticità non mancano. La quota Fiat del mercato europeo è scesa di tre punti percentuali negli anni della grande crisi. E ci vorrà tempo per tentare la risalita, anche se i nuovi modelli finalmente stanno per arrivare. La sensazione, però, è che queste difficoltà siano già state scontate nel prezzo mentre il completamento dello sbarco in Chrysler senza aver dovuto vendere asset o far nuovi debiti spazza via più di un dubbio. Certo, ora tocca investire. E non è escluso che Marchionne ed Exor non scelgano di finanziare lo sviluppo facendo cassa con qualche cessione. Ma in una Borsa povera di spunti e in una congiuntura di mancato sviluppo, questa Fiat sembra quasi una rosa nel deserto.
SORPRESA: SI E’ RISTRETTO IL PATRIMONIO DI PALAZZO MARINO
Pur nell’infuocata atmosfera che precede il ballottaggio di domenica prossima, nessuno ha avuto l’ardire di accusare i vertici di Lufthansa di aver ordito un complotto nei danni del sindaco uscente, Letizia Moratti, e di Giuseppe Bonomi, presidente della Sea, probabilmente il manager di maggior prestigio dell’area della Lega. Eppure, a cinque giorni dal voto, la decisione del carrier tedesco di rinunciare allo hub in terra di Lombardia, riducendo Malpensa a una semplice appendice commerciale degli scali di Francoforte e Monaco, è un colpo basso per l’amministrazione uscente. Primo, perché nei programmi della giunta era già contabilizzata l’ipo della società aeroportuale, cui ora si dovrà rinunciare. Secondo, perché i mancati introiti per il collocamento Sea renderanno ancor più aspro il confronto in casa A2A, dove Lega e Compagnia delle Opere sono da tempo ai ferri corti. Tra l’altro per la politica dei dividendi: il presidente del consiglio di sorveglianza, Graziano Tarantini, vicino alla Cdo, è convinto che la società non po’ sostenere ancora un pay out nell’ordine del 90 per cento degli utili, pena la ricaduta su debiti ed investimenti. Ma le cedole di A2A, al centro del duello per il controllo della Edison, rappresentano il 4 per cento circa delle entrate correnti di palazzo Marino. A rendere ancora più complicata la tela del potere economico ci pensa poi la partita del Piano di Governo del Territorio (cui si lega la sorte del gruppo Ligresti), con un valore attorno ai 14 miliardi, che s’intreccia con il dossier Expo. Il blitz di Lufthansa a Malpensa (narrano le cronache che il comunicato della decisione sia stato diffuso in Germania prima di informare la controparte milanese) rischia perciò di far saltare equilibri già incrinati da tempo. In attesa che si formi un accordo tra Roberto Formigoni e il nuovo sindaco. E se non sarà la Moratti, Formigoni se ne farà facilmente una ragione.
COMMERZBANK-INTESA: 1-0
Corrado Passera non se ne dà pace. Certo, la congiuntura sembra fatta apposta per rendere più difficile la già non facile operazione di aumento di capitale della banca di sistema. Si può anche accettare, insomma, di vedere il titolo di Ca’ de Sass trattato a sconto, ma tollerare, in una giornata come questa, che gli investitori internazionali regalino a Commerzbank, impegnata in un aumento di capitale da 5,3 miliardi, un rialzo vicino all’1 per cento? E’ vero che lo sconto proposto per i titoli della banca tedesca, ovvero il 30 per cento, è più alto di quello pur generoso, pari al 24 per cento, proposto da Intesa. Ma gli obiettivi sono del tutto diversi: Intesa mira a rimpolpare il patrimonio per arrivare ad un Core Tier 1 pari al 9,8 per cento. Commerzbank batte cassa, invece, per alleggerire parte del debito (16,2 miliardi, ad un costo medio del 9 per cento) verso il governo di Berlino costretto ad un mega intervento per scongiurare un crack di immani dimensioni. Insomma, sulla carta Intesa dà ben altre garanzie. Ma, ahimè, non giova alla banca ex San Paolo l’etichettà di “italianità”, come ha potuto constatare di persona lo stesso Passera nel road show, in cui più volte analisti e gestori si sono detti scettici sulla possibilità che una banca così coinvolta nell’economia italiana possa avere prospettive di crescita. Di qui la scelta di puntare su una banca tedesca, dal passato assai più discutibile. Forse la pensano così anche al Crédit Agricole che, in vista della vendita dei diritti legati all’aumento, hanno fatto shopping in Grecia, rilevando la piccola banca Emporiki, sull’orlo del disastro.
LA SCURE DI S&P SU MEDIOBANCA
S&P’ ha tagliato l’outlook di quattro banche italiane: Intesa, Mediobanca, Bnl e Findomestic come diretta conseguenza del taglio sul rating dell’Italia. Le quattro banche, si legge in una nota, “sono fortemente dipendenti dal mercato domestico e un abbassamento del rating iyaliano avrebbe come conseguenza un downgrade degli istituti citati”-
WALL STREET GIU’. GOLDMAN: IL PETROLIO RISALIRA’ A 130 DOLLARI
Ancora in rosso. Nonostante una buona intonazione per larga parte della seduta, il Dow Jones ha invertito la rotta in finale di seduta, complici le preoccupazioni sull’Europa e i dati deludenti dell’economia in arrivo dal Midwest. Eppure l’indice (chiusura a 12356,21 con un calo dello 0,2%) aveva potuto contare sull’apporto del settore energia (+1,3%) rilanciato da un report di Goldman Sachs che ha ritoccato al rialzo il target dei prezzi petroliferi a 130 dollari il barile. Analogo il destino del Nasdaq (-0.46) mentre l’ S&P 500, grazie ai titoli dell’energia, ha limitato le perdite allo 0,09 per cento. A New York l’euro è stato trattato a 1,41 sul dollaro.
ASIA: TOYOTA RIPARTE, PER GLENCORE ESORDIO ALL’INGIU’ (- 3%)
Seduta nervosa, all’insegna del ribasso, nelle principali Borse asiatiche. Il Nikkei 225, ad un’ora dalla chiusura era sotto dello 0,4 %, il Kospi di Seul perdeva l’1,1% , seguito a ruota dall’Australia (-0,7). Fa eccezione però il settore auto, trascinato all’insù a Tokyo dalla notizia, riferita dal Nikkei Times che Toyota prevede di riportare, entro un mese, la produzione domestica al 90% dei livelli precedenti il terremoto dell’11 marzo. In lieve flessione anche il listino di Hong Kong (-0,1%). Debutto in ribasso, invece, per Glencore International (-3n%) ad Hong Kong, su cui ha pesato la prospettiva di un calo della domanda di materie prime da parte della Cina. Al contrario, pur restando sotto il prezzo di collocamento (530 p.) il titolo aveva esordito in maniera positiva a Londra fissando una quotazione a 525 p (+2.14%). (u.b.)