Diminuiscono i componenti dei board, aumentano però gli indipendenti e le retribuzioni medie degli amministratori delegati. E’ questa una prima sintetica fotografia che emerge dalla quattordicesima edizione del Monitoraggio sull’applicazione del Codice di autodisciplina delle società quotate promossa da Assonime, l’Associazione fra le società italiane per azioni, ed Emittente titoli S.p.a. Lo studio, elaborato dai professori dell’Università Cattolica Massimo Belcredi e Stefano Bozzi, si articola attorno a tre parti principali: l’adesione al Codice, la valutazione delle Relazioni sulla remunerazione e, per la prima volta, l’analisi sull’applicazione del “comply or explain”, principio secondo il quale chi non si adegua alla raccomandazione del Codice deve spiegarne i motivi. Un principio che è stato oggetto di una recente Raccomandazione della commissione europea recepita dal nuovo Codice di Autodisciplina del luglio 2014 e che richiederà alle società quotate un ancor più elevato livello di disclosure.
I dati dell’attuale monitoraggio fanno comunque ancora riferimento al Codice del 2011 dal momento che analizzano 230 società quotate al 31 dicembre 2013 che hanno reso disponibili la relazione sulla Corporate governance al 15 luglio 2014 (il panel è praticamente integrale, le poche relazioni mancanti, fa notare il rapporto, sono legate a casi di delisting, fusioni e procedure concorsuali).
L’ADESIONE AL CODICE
Il primo dato che emerge dal rapporto è la conferma dell’alta adesione al Codice di autodisciplina: il 93% delle società dichiara di aderirvi (213 società) e il 71% di chi non lo fa ne spiega la motivazione: le società fanno riferimento di solito alle loro dimensioni ancora ridotte o alla loro ancora scarsa strutturazione, oppure all’aver adottato un sistema di corporate governance complessivamente in linea con i principi enunciati dal Codice. Un comply or explain che, fa notare Assonime, non è richiesto su questo punto (l’adozione o meno del Codice) e che quindi può essere valutato in modo positivo. L’Italia è nel complesso tra i Paesi con più informazioni sulla governance societaria rese disponibili dalle aziende. ”Siamo soddisfatti di avere queste informazioni abbondanti e dettagliate – ha detto Carmine di Noia, Vice Direttore Generale di Assonime – che ci permettono di fare un’analisi del genere. L’applicazione del codice è sempre più elevata e sostanziale. E anche la non applicazione è matura, consapevole e spiegata. La qualità delle spiegazioni è buona ma potrà essere notevolmente migliorata anche alla luce del nuovo codice licenziato a luglio. Inoltre, se all’estero c’è una grande pressione nell’avere dei rigidi schemi di disclosure, riteniamo che in Italia ci sia un buon equilibrio tra la redazione in forma tabellare di alcuni dati quantitativi e di altri in forma di spiegazioni qualitative. La lettura è facile, ma comunque non bisogna esagerare nella quantità di informazioni”. Che, se troppo abbondanti, è chiaro, possono annacquare quelle rilevanti.
LA COMPOSIZIONE DEI BOARD
L’APPLICAZIONE DEI CRITERI DI INDIPENDENZA
La numerosità dei componenti del board è in lieve calo, soprattutto in seguito alla riduzione del numero di consiglieri nel settore finanziario che sono scesi da una media di 15,6 del 2011 a 14,7 nel 2014. Nel complesso è in crescita la pratica della board evaluation, che punta a indagare il funzionamento del board nei suoi vari aspetti sulla base di questionari inviati ai consiglieri. Gradualmente nel tempo la composizione del board si sta poi allineando alle raccomandazioni del Codice. Da rilevare che il 90% ha costituito il comitato per le remunerazioni e quello controllo e rischi mentre meno della metà ha il comitato per le nomine, e spesso unificato a quello per le remunerazioni. E questo perché, è la spiegazione più diffusa, a differenza di quanto avviene in altri Paesi, in Italia le nomine le fanno gli azionisti attraverso il sistema del voto di lista e il comitato nomine serve a poco.
Sia nelle società non finanziarie sia in quelle finanziarie aumentano gli amministratori indipendenti. “Un aumento – avverte però Di Noia – che non è un dato da considerarsi buono a priori. Tra il 2006 e il 2008 si è per esempio verificato un crollo degli amministratori indipendenti nel settore finanziario che è stato positivo perché ha mostrato una maggiore consapevolezza delle società nel valutare gli indipendenti”.
Uno dei punti su cui si è dibattuto negli ultimi anni è stata proprio l’applicazione dei criteri di indipendenza. Il rapporto tenta quindi per la prima volta un’analisi anche del principo “comply or explain” sull’applicazione di questi criteri. Dal monitoraggio emerge che il 93,4% delle società applica i criteri previsti dal Codice e che solo il 5,7% non lo fa (che corrisponde a 13 casi). E quasi sempre (11 casi) si riferiscono a casi di tenure ultranovennale (tenure lunga). In altri termini, il Codice raccomanda che gli amministratori indipendenti non superino i 9 anni di “servizio”, soglia oltre la quale scatta il rischio del fenomeno “cattura” dell’indipendente da parte della società. Nell’85% dei casi chi dichiara di disapplicare i criteri afferma di voler privilegiare le competenze acquisite nel tempo e di voler evitare automatismi. Allo stesso tempo, però, ci sono anche società (33 casi, 14% del totale) che pur aderendo al Codice hanno valutato positivamente l’indipendenza dei consiglieri malgrado l’esistenza di situazioni “a rischio” sulla base del principio generale della prevalenza della sostanza sulla forma. Una situazione che non viene considerata di “disapplicazione” perché i criteri non sono tassativi e lo stesso Codice raccomanda di guardare più “alla sostanza che alla forma” (criterio 3.C.1 del Codice). Anche qui, uno dei casi più ricorrenti è la tenure ultranovennale.
LA RELAZIONE SULLE REMUNERAZIONI
BANCHE, INDIPENDENTI CATTURATI?
Un elemento da valutare nelle situazioni a rischio è la remunerazione. Il rapporto ha così incrociato i dati sulle remunerazione degli indipendenti (remunerazioni non equity-based) con quelli sulla presenza di condizioni che possono ridurre il grado di indipendenza confermando, come per gli anni passati, che gli “indipendenti a rischio” (ossia dove sono presenti alcune situazioni particolari che possono ridurre il grado di indipendenza) percepiscono remunerazioni più elevate degli indipendenti non a rischio, per quanto il gap si sia ridotto rispetto alla rilevazione del 2013 (sul 2012). Se si approfondisce questa relazione con riferimento alla sola condizione di durata in carica ultranovennale (in totale 137 consiglieri), si conferma una situazione di maggiore remunerazione: 66 mila euro per gli indipendenti con “tenure lunga” contro i 55mila per gli altri.
Ciò che più rileva, è che questo gap si amplia sensibilmente nel caso del settore bancario, “dove – si legge nel rapporto – gli indipendenti con tenure lunga percepiscono remunerazioni più elevate di 55mila euro (il 55% in più)”. In altri termini, la remunerazione passa da circa 93mila euro a circa 149mila euro rispettivamente per l’indipendente in carica da meno di nove anni e quello da più di nove anni. Non solo. Anche per le società non finanziarie per la prima volta è percepita una differenza di remunerazione al superamento della soglia dei nove anni, ma è comunque di entità notevolmente più ridotta, ossia il 19% in più (da 47mila a 56mila circa). E proprio perché è più marcato nel settore bancario, non sorprende che, in una divisione per segmento, questo gap riguardi soprattutto le società del Ftse Mib e in misura minore le Mid Cap, e sia assente tra le Small cap (dove gli indipendenti con tenure lunga percepiscono invece compensi mediamente inferiori).
In ogni caso le remunerazioni (non equity-based) per gli indipendenti nel loro complesso si sono mantenute in media sui livelli del 2012 attorno ai 54mila euro. Aumentano invece le remunerazioni degli amministratori delegati che, sempre contando solo la componente cash, in media salgono a 846mila euro dai 768 precedenti, trainate soprattutto dalle Pmi e dalle società non finanziarie. Ci sono poi circa 38 ad che prendono anche compensi stock-based “spesati” nell’anno di riferimento che si aggirano in media attorno ai 686mila euro, in riduzione dalla media di 772mila euro del monitoraggio del 2013. Se si considerano solo gli ad delle maggiori società quotate, quelle appartenenti al Ftse Mib, i compensi non equity salgono in media a 1,87 milioni e solo 14 ad (su 45) sono beneficiari di piani stock-based “spesati” nell’anno di riferimento, in media di circa 1,5 milioni (in aumento dagli 1,34 milioni dell’anno precedente).
Infine, nel 76% dei casi le società comunicano l’esistenza di una componente variabile legata ai risultati aziendali mentre la comunicazione della non comunicazione riguarda la metà dei casi. Solo il 25% delle società comunica ex ante l’esistenza di limiti specifici alle indennità di fine carica.