“Se io non sono per me, chi è per me? E, se io sono solo per me stesso, cosa sono? E se non ora, quando?”
(Talmud – Pirkei Avot – Le massime dei padri)
Dopo il G7 di Hiroshima fervono i preparativi per il passaggio di testimone per il G7 2024 in Italia. Tra gli argomenti cardine dei lavori, oltre a quello della sanità già illustrato, sicuramente il mondo del lavoro incardinato su un modello di società che è già un paradigma culturale nuovo e che scaturirà da questa fase di transizione sociale ed economica epocale di policrisi e post globalizzazione.
Ed è proprio l’eminente professoressa Yuko Harayama che è stata chiamata dal Primo Ministro giapponese a definire un nuovo modello di sviluppo economico e sociale avviando il concetto di società ed impresa 5.0. La precedente Impresa 4.0, nata in Germania, resta sinonimo della quarta rivoluzione industriale basata sull’Internet of Things e la comunicazione di dati in tempo reale per una fabbrica ubiqua, fisica e virtuale nello stesso tempo. Si tratta di un paradigma ormai superato focalizzato sulle tecnologie abilitanti, su efficienza e produttività.
Che cos’è l’impresa 5.0? Il modello giapponese
Impresa 5.0, invece, è un paradigma focalizzato sulle persone e sull’ambiente, sulla qualità della vita e la sostenibilità, con il supporto delle tecnologie dell’industria 4.0, a partire da un mutato rapporto fra uomo e robot. Una società che cerca di bilanciare lo sviluppo economico con la risoluzione dei problemi socio-ambientali, in cui le tecnologie vengono usate non solo per profitto, ma per migliorare la qualità della vita di ogni cittadino. La qualità della vita di ogni individuo, nel rispetto del suo genere, delle sue preferenze, di ogni tipo di “diversità”.
Un esempio di applicazione del modello viene naturalmente dal settore agricolo. Il Giappone ha grandi città come Tokyo, e nelle zone rurali dove l’agricoltura è un’attività dominante i giovani non amano rimanere lì, sono attratti dalle grandi città. Pertanto, l’età media della popolazione che rimane nel settore agricolo è molto alta, il che non è più sostenibile. Quindi, il modo in cui il Giappone gestisce il settore agricolo è stato modificato. Il Piano governativo sulla Società 5.0 ha visto iniziative e finanziamenti per digitalizzarlo e renderlo più attraente per i giovani, che possono gestirlo come un’azienda utilizzando nuovi strumenti digitali come i dati meteorologici, i dati sulla crescita delle colture, le condizioni di mercato, le tendenze e le esigenze alimentari. Inoltre, introducendo l’utilizzazione delle biotecnologie. Si tratta di mettere insieme diverse sfide con l’obiettivo di rendere disponibili i prodotti agricoli richiesti dai consumatori quando lo desiderano nel rispetto della salute e dell’ambiente e riportando i giovani a ripopolare le campagne e dominare il riscatto del settore primario. A ciò si sono aggiunte azioni intersettoriali. Se guardiamo alla sfida degli anziani, che vede infatti Giappone e Italia vivere la stessa emergenza sulla gestione della longevità, è evidentemente necessario un mix di conoscenze: conoscenze mediche, conoscenze tecnologiche (ad esempio per la guida autonoma), ecc. per rivitalizzare il coinvolgimento degli over 60 in ambito lavorativo e sociale.
Italia vs Giappone: sfida tra lavoro e longevity
Ora guardando l’Italia fotografata dai dati EIGE, European Index on Gender Equality, la dimensione lavoro la vede fanalino di coda d’Europa. A conferma quindi dei risultati su più vasta scala del Global Gender Gap Report 2022, pubblicato dal World Economic Forum, nella dimensione partecipazione economica e opportunità, assimilabile alla dimensione lavoro proposta da EIGE, ne consegue che la vera emergenza sociale italiana riguarda la partecipazione e le condizioni delle donne nel mondo del lavoro, e non solo.
Donne che in Italia si trovano ad attraversare l’impegno all’acquisizione delle competenze abilitanti ad una complessità lavorativa, profondamente mutata dall’avvento del digitale, in mezzo al guado dei divari di genere presenti proprio nelle competenze: tecnico scientifiche, digitali e finanziarie ed a detrimento di una piena partecipazione sociale e lavorativa. Donne che subiscono a parità di merito differenziali salariali, di opportunità di carriera e quindi pensionistici. Lo sviluppo economico di un Paese passa inevitabilmente, come per le imprese, dal mettere al centro la parità di genere e l’inclusione.
D’altronde basti pensare che la definizione di “impresa al femminile” dal 1992 non è mai stata aggiornata! E come possiamo definire norme e iniziative a favore dell’imprenditoria al femminile se non siamo in grado di tracciare dati coerenti e rappresentativi della realtà?
Un’impresa, che può essere il nostro approdo lavorativo, o la nostra impresa, come esito del mettersi in moto in un’attività che sin da subito sposi valori della società 5.0 e che sia umanocentrica, sostenibile e resiliente, ha bisogno di persone capaci sempre più di pensiero laterale, creatività e pensiero critico, pensiero anticipatorio e flessibilità cognitiva ed empatia. Quindi costruire l’habitat per un capitale umano preparato ad affrontare la sfida che ci attende e la cui mancanza crea emergenza sociale nel mondo del lavoro come nelle imprese. Questo è un passaggio epocale, per il quale le life skills sono centrali, e quindi per fare sì che tutti noi possiamo essere capaci di questo, una base imprescindibile è la trasformazione profonda del sistema scolastico e del sistema imprenditoriale, della concezione stessa di lavoro.
Il capitale umano e le life skills “per la vita”
Tutti noi sappiamo quanto preziose siano, quanto contribuiscano al nostro benessere e a quello degli altri, le life skills:
- la capacità di prendere decisioni e di risolvere i problemi;
- il pensiero creativo e il senso critico: cioè la capacità di ri-elaborare in modo autonomo e oggettivo situazioni e avvenimenti (una life skill fondamentale per i giovani e per contrastare e gestire meglio le ludopatie e ogni forma di dipendenze, soprattutto quelle dal digitale);
- la comunicazione efficace;
- la capacità di relazionarsi con gli altri, così da stabilire e mantenere relazioni significative in modo positivo e saper anche interrompere relazioni, se necessario, in modo costruttivo e non violento;
- la conoscenza di sé, delle proprie abilità, dei propri punti di forza e di debolezza e dei propri bisogni;
- la gestione delle emozioni e la gestione dello stress ovvero la capacità di riconoscere le cause che possono creare tensione, e di sapersi adattare alle situazioni e ai cambiamenti.
E poi l’empatia ossia la capacità di “mettersi nei panni dell’altro”, cioè di ascoltare senza pregiudizi, cercando di capire il punto di vista dell’altro.
E proprio perché sono skills, quindi competenze, significa che possiamo impararle e insegnarle. Infatti, si insegnano. E lo sanno bene in Danimarca. Dal 1993, l’insegnamento dell’empatia è obbligatorio nelle scuole e tutti gli studenti dai 6 al 16 anni partecipano settimanalmente alla Klassens tid: l’ora di empatia. E questo è considerato uno dei fattori che contribuisce alla felicità del Paese.
L’empatia aiuta a costruire relazioni, prevenire il bullismo e avere successo sul lavoro. Promuove la crescita di leader, imprenditori e manager. Non sarà un caso che la Danimarca sia ai primi posti per la qualità del lavoro in tutta Europa.
E che dire della capacità di comunicare, tanto pensieri quanto emozioni, stati d’animo, in maniera efficace, rispettosa e mai violenta. Nei Paesi anglosassoni, il public speaking è materia di insegnamento curriculare e in molte realtà si ricorre all’uso del teatro per sviluppare la versatilità e individuare strumenti per affrontare le diverse situazioni della vita.
Insomma, la scuola è – e può esserlo sempre più – un ambiente ideale per l’insegnamento delle life skills perché svolge un ruolo importante nei processi di socializzazione. A scuola si formano i bambini e gli adolescenti a pensare criticamente, a saper collaborare con gli altri, a creare e mantenere buone relazioni, a stabilire e riconoscere obiettivi e valutare il proprio apprendimento.
A che punto siamo oggi in Italia?
All’inizio di quest’anno è stata approvata, all’unanimità, la Legge 2782/2022, presentata per la prima volta negli ultimi mesi del 2020, che disciplina la «Disposizione in materia di insegnamento sperimentale dell’educazione all’intelligenza emotiva nelle scuole di ogni ordine e grado». Dopo anni di sperimentazioni non ufficiali, e buone pratiche affidate dalla solerzia dei singoli, le life skill entrano, finalmente, di diritto, nei programmi scolastici. Anche per affrontare le sfide complesse della socialità digitale, come quella della FOMO, la sindrome di sentirsi tagliati fuori dalla società.
E si vanno ad affiancare alle altre skills, quelle digitali e quelle economiche e finanziarie. Inserite quest’ultime nel recente DDL Capitali dopo anni di discussioni e di proposte di legge, nonostante l’Italia si posizioni fanalino di coda nell’alfabetizzazione finanziaria sia degli adulti che dei giovani.
Il punto è che fra life skills e quelle economiche e digitali non ci deve essere, a mio avviso, una “lotta”. Dobbiamo uscire dal paradigma dicotomico: non c’è dicotomia, da un lato emozioni e sentimenti, “human touch”, dall’altro tecnicismi e Intelligenza artificiale. È un tema molto delicato e controverso, e proprio in questi mesi ChatGPT ha riacceso il dibattito sulle potenzialità del digitale.
Credo che, come davanti ad ogni era trasformativa, sarà la capacità di ispirarci anche a modelli come quello dei giapponesi, già diventato globale, e dai quali riceveremo il testimone del G7 a breve che ci potrà guidare verso il domani.
Un nuovo paradigma culturale
È qui che si gioca anche il nuovo paradigma, quello dell’Impresa 5.0, che è, a mio avviso, prima di tutto un paradigma culturale. Persone aperte, inclusive, capaci di immaginare, intuire, sentire e non solo pensare. Persone empatiche, capaci di – sentire dentro – sentire dentro la Vita, e di agire in coerenza con questo. Tocca a noi, e a ciascuno di noi, insieme occuparcene: è nostra comune responsabilità. Una società umanocentrica, sostenibile e resiliente è quella che sapremo costruire tutti insieme.
Ci sono molti modi per vivere la responsabilità sociale e molte skills aiutano a farlo.
Sull’importanza di “lavorare” per sé stessi, per la propria “impresa di vita”, e per avere il coraggio di cominciare da sé, perché una cosa è certa, il “capitale” umano, ovvero quel mix di abilità, caratteristiche personali, talenti, sostenuto da un portfolio di skills ben diversificato e resiliente, costituisce le fondamenta e gli ingranaggi per far funzionare bene qualsiasi progetto di società dell’oggi e del futuro.
Noi siamo i portatori di cambiamento culturale ed abbiamo il dovere di esserlo e per questo abbiamo il dovere di crescere ed evolverci in un contesto inclusivo e sostenibile per le nuove generazioni. Per riprenderci un mondo sano e pieno di opportunità, un mondo che costruiamo con la nostra persona, la nostra forza, e non l’imitazione di un modello virtuale proposto dai social che non ci appartiene e non evolve, ed è debole perché fine a se stesso, senza prospettiva, sterile e non produttivo di un futuro lungimirante per un Paese sempre più 5.0.
View Comments (1)
Che bel lavoro, è stato un piacere leggerlo