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Sindacati troppo conservatori sul contratto nazionale

Lo scenario economico in cui ci troviamo da anni imporrebbe ai sindacati un coraggioso sforzo di rinnovamento per ridare alle aziende un sostegno ai recuperi di produttività che solo si può ottenere con un diverso sistema di rapporto tra i livelli della contrattazione salariale collettiva.

Nella ricerca di una unità sindacale da contrapporre a Matteo Renzi, non ci troviamo di fronte ad una sintesi organica di politica sindacale, ma ad una sommatoria di tre anime sindacali talvolta in contrasto tra di loro, che vanno dalla filosofia partecipativa della Cisl al neodirigismo della Uil e all’anima operaista e populista della Cgil.

La centralità della rivendicazione sindacale resta il principio della immutabilità della contrattazione collettiva nazionale quale elemento regolatore dei livelli salariali, non volendo attribuire alle retribuzioni contrattuali solo quella funzione di “salario minimo di garanzia” che sarebbe auspicabile, né riconoscendo un ruolo, se non marginale, alla contrattazione aziendale, effettivo luogo di potenziale scambio di flessibilità e produttività per l’azienda.

L’accordo concertativo del 1993 sulla contrattazione prevedeva che il salario contrattuale coprisse solo l’inflazione mentre il salario aziendale sarebbe stato collegato agli incrementi di produttività, qualità e redditività aziendale. Uno schema che, nei fatti, resse solo per la stagione dei rinnovi contrattuali del 1994.

Negli anni successivi e fino agli ultimi rinnovi, gli incrementi salariali dei contratti nazionali sono sempre stati superiori all’inflazione perché si sosteneva, disattendendo le linee guida dell’accordo del 1993, che dovevano pagare anche gli incrementi (puramente teorici) di produttività complessiva del settore merceologico, peraltro in un sistema Paese che continuava a perdere competitività.

Per anni si è voluto fingere di non capire che l’asse della contrattazione salariale si sarebbe dovuta spostare sempre più sul baricentro dell’azienda, che grazie agli sgravi contributivi o alla fiscalità agevolata darebbe aumenti superiori ai lavoratori e costi minori alle aziende.

Sembra che il sindacato voglia ignorare che perseverando in una politica delle retribuzioni contrattuali fisse, sganciate da ogni riferimento alle realtà aziendali, i salari in Italia continueranno ad essere tra i più bassi ed il costo del lavoro tra i più elevati in Europa, ed in questo modo perdendo non solo occupazione (a prescindere dagli effetti droganti sul mercato del lavoro del Jobs Act) ma anche reddito.

Il meccanismo salariale proposto, ad esempio, nella piattaforma rivendicativa dei metalmeccanici per il rinnovo del Ccnl, la cui trattativa riprenderà a settembre, condannerebbe nuovamente tutte le aziende del settore ad una dinamica di crescita di costi illimitata e totalmente sganciata dalla situazione dell’impresa e fondata sul presupposto che, sempre e comunque, l’azienda abbia una ricchezza da distribuire.

Risulta del tutto evidente che l’intento di respingere a tutti i costi l’introduzione nel nostro Paese del “salario minimo legale”, presente nella maggioranza dei Paesi europei, o comunque di un “salario contrattuale di garanzia”, fa riproporre al sindacato un meccanismo che ricorda perfino il “salario variabile indipendente”, che già Luciano Lama considerava un errore strategico nel 1978.

Nell’intervista rilasciata a La Repubblica il 24 gennaio 1978, Lama dichiarava infatti: “Ci siamo resi conto che un sistema economico non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente. I lavoratori e il loro sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto in questi anni che il salario è una variabile indipendente. In parole semplici  si stabiliva un certo livello salariale e un certo livello dell’occupazione e poi si chiedeva che le altre grandezze economiche fossero fissate in modo da rendere possibile quei livelli di salario e d’occupazione. Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra”.

Alla domanda se esisteva una relazione tra il livello salariale troppo elevato rispetto alla produttività e la diminuzione dell’occupazione, Lama rispondeva: “È esattamente così, l’esperienza di questi anni ce l’ha confermato. Oppure, l’occupazione non scenderà, ma la disoccupazione aumenterà, perché le nuove leve giovani non troveranno sbocco”.

Per recuperare la competitività e la produttività del sistema industriale in costante calo da trenta anni a questa parte, sarebbe necessario quindi procedere ad un vero e proprio revirement delle relazioni industriali con il passaggio a nuovi sistemi contrattuali più semplici ed efficaci, e non rinnovare ad esempio, contrariamente a quanto da più parti auspicato, il Ccnl dei metalmeccanici secondo lo schema tradizionale, che comunque farebbe registrare un balzo indietro rispetto ai Ccnl del 2009 e del 2012 firmati solo da Fim-Cisl e Uilm-Uil, essendo spariti nella piattaforma unitaria con la Fiom-Cgil i timidi richiami alla derogabilità degli accordi aziendali.

L’introduzione di un salario minimo per legge o, come proposto da Federmeccanica, l’adozione contrattuale di un salario di garanzia per i lavoratori le cui retribuzioni non sono toccate da superminimi individuali o collettivi accelererebbe dunque il processo di rinnovamento dei sistemi contrattuali, rendendo formalmente possibile dare avvio ad una contrattazione collettiva decentrata, in grado di essere più vicina alle esigenze delle imprese e dei lavoratori, azienda per azienda.

Ciò non significa cancellare le parti normative del contratto nazionale di lavoro, a partire dai diritti sindacali, ma le dinamiche retributive sarebbero ricondotte, con la contrattazione aziendale, al merito e alla motivazione collegata alla prestazione lavorativa, a vantaggio delle performance aziendali e dei salari dei lavoratori.

Ovviamente il contratto nazionale di lavoro continua ad avere il suo peso per chi non fa contrattazione, e quindi continua a tutelare, con il salario di garanzia, il potere d’acquisto di tutti i lavoratori del settore in cui si applica, se non hanno altre fonti di incremento salariale.

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