Un discorso di insediamento quello di Donald Trump dai toni fortemente populistici, patriottici e protezionistici, ma che alla fine, secondo l’analisi di Stefano Silvestri, grande esperto di politica internazionale, consigliere scientifico e già presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai), “è sembrato poco significativo. Donald Trump ha usato degli slogan che andranno visti alla prova dei fatti”. Sul tavolo del nuovo presidente Usa c’è però già il primo dossier: la ridiscussione dell’accordo di libero scambio NAFTA, con Canada e Messico, uno dei cavalli di battaglia del nuovo presidente sin dalla lunga campagna elettorale che lo ha portato alla Casa Bianca contro ogni pronostico: “Mi sembra una scelta controproducente. In generale tutte le scelte protezionistiche lo sono, perché proteggono in maniera illusoria: la globalizzazione va avanti e isolarsi può premiare subito, ma alla lunga indebolisce”, sostiene Silvestri commentando, in questa intervista a FIRSTonline, una settimana che è sembrata rovesciare il mondo non solo con il debutto di Trump alla Casa Bianca ma con quello del leader cinese Xi Jinping a Davos e con il controverso intervento del premier britannico Theresa May su Brexit.
Professor Silvestri, con il suo protezionismo Trump rischia l’effetto boomerang, non solo sul Nafta ma anche nel caso delle migliaia di nuovi posti di lavoro già garantite in Usa, se vogliamo anche opportunisticamente, da diverse case automobilistiche e anche Amazon e Wal-Mart: è così?
“Certamente, perché se si assume oggi a costi maggiori, sarà un problema domani per le aziende produrre di più ed esportare. Gli Stati Uniti hanno un grande mercato interno e forse possono correre questo rischio, ma secondo me il prezzo da pagare sarà comunque alto. Senza contare che il protezionismo disincentiva l’innovazione, che funziona solo quando c’è vera concorrenza”.
Il tema del protezionismo e della globalizzazione, prima ancora del discorso di insediamento di Donald Trump, è stato al centro dell’attenzione negli ultimi giorni, con l’intervento del premier britannico Theresa May su Brexit e quello – sorprendente – del presidente cinese Xi Jinping. Che cosa ne pensa?
“Ho trovato interessante e positiva la presa di posizione di Xi Jinping, anche se potrebbe essere una tattica per contrapporsi alle mosse di Trump, che vanno nell’altro senso. La Cina fa bene a seguire questa strada anche se bisognerà vedere se il modello funziona: abbiamo visto che il Pil continua a rallentare e parliamo pur sempre di un regime comunista, che con un sistema troppo aperto potrebbe veder scoppiare sommosse popolari. Per quanto riguarda il Regno Unito è evidente che la May ha preso atto del fatto che stare con un piede in Europa e uno fuori non è possibile: andiamo dunque verso una “hard Brexit”, con conseguenze difficili per entrambe le parti. Soprattutto per i Paesi europei probabilmente, destinati in generale a pagare a caro prezzo i cambiamenti in corso nel sistema internazionale”.
In che senso?
“L’Europa ha vissuto per anni una rendita di posizione, protetta da un saldo rapporto con Uk e Usa: ora questa comfort zone sta venendo a mancare e dall’altra parte ci sono le tensioni con Russia e Turchia. Se poi, come è sembrato emergere dal suo discorso, Theresa May dovesse fare del Regno Unito un paradiso fiscale, per l’Ue e i Paesi europei sarebbe un problema: saremmo costretti a mettere della barriere e questa non è mai una buona cosa”.
Perché?
“Perché, come dicevo prima, il protezionismo paga solo a breve termine. Trump ha usato lo slogan ‘compra americano, assumi americano’, ma questo è appunto solo uno slogan e al limite, se davvero applicato, può fare pochi danni in un Paese grande come gli Usa, mentre sarebbe deleterio per Paesi come l’Italia”.
Tornando a Trump: in una precedente intervista rilasciata a FIRSTonline lei lo aveva definito “destabilizzante”. Non c’è dubbio che anche la sua, come quella di Brexit, sembra una rottura “hard”.
“Lo confermo: Trump è destabilizzante in quanto assolutamente imprevedibile, poiché non sa nemmeno lui esattamente cosa fare. Il suo discorso di insediamento è stato infatti generico e poco significativo sui contenuti, andrà verificato alla prova dei fatti. Certamente c’è la rottura con la precedente amministrazione e lo vedremo soprattutto nei rapporti internazionali: privilegerà gli accordi bilaterali a quelli multilaterali, mettendo sempre l’America al primo posto come ha più volte ripetuto. Trump vede un mondo in cui gli interessi nazionali si contrappongono e quasi si annullano: non dico che abbia una visione a “somma zero” (io guadagno se tu perdi, ndr) ma poco ci manca. Comunque solo due Paesi nel mondo possono permettersi politiche protezionistiche: Usa e Cina, ma la Cina ha dato un messaggio diverso”.
Lei ha conosciuto molti presidenti statunitensi: se dovesse dirne uno, chi le ricorda di più Trump?
“Nessuno. Trump è un unicum, non viene dalla politica e si pone anche contro l’establishment. In più sta aprendo alla Russia, fatto assolutamente nuovo anche se va poi verificato: gli accordi si fanno in due, a Putin potrebbe convenire un Trump amico per uscire dal suo isolamento internazionale, ma vedremo se davvero i due si troveranno d’accordo”.
E l’Europa come ne esce? Come ha detto prima, i paradigmi stanno cambiando, e in più il 2017 è l’anno delle elezioni in Francia, Germania e forse Italia.
“Per l’Unione europea questo è un anno decisivo. Lo spartiacque sono le elezioni francesi, che arrivano per prime (si vota il 23 aprile e il 7 maggio, ndr): se dovesse spuntarla Marine Le Pen e poi dovesse attuare quanto sta dicendo in campagna elettorale, cioè portare la Francia fuori dall’Europa, allora l’Europa è morta. L’Europa seppur con grandi difficoltà può fare a meno del Regno Unito, ma non della Francia, della Germania e della stessa Italia”.
Quale sarebbe per l’Europa il presidente più auspicabile tra quelli concorrenti per l’Eliseo?
“Fillon ha una visione gollista, quella che abbiamo conosciuto tanto tempo fa con la formula “Europa delle patrie” e che sarebbe ancora gestibile. Meglio ancora vedrei un liberale europeista come Macron. In Italia invece dipende tutto dal Pd: se non si suicida, possiamo avere un Paese stabile. Se invece il Movimento 5 Stelle diventasse il primo partito, sarebbe pericoloso almeno quanto Trump per gli Usa”.