Un centesimo in più a sigaretta, cioè, 20 centesimi in più a pacchetto, per finanziare un fondo per l’accesso ai farmaci innovativi oncologici, gestito dall’AIFA. La cosiddetta tassa di scopo, promossa da alcune case farmaceutiche e recepita dal ministro della Salute Beatrice Lorenzin, che vorrebbe inserirla nella prossima Legge di Stabilità, dovrebbe nelle intenzioni raccogliere 720 milioni di euro. Ma lo farà per davvero?
No, per una serie di ragioni tecniche, avvalorate da studi e da pareri di esperti del settore. La prima è molto semplice: per quanto un aumento di soli 20 centesimi a pacchetto possa risultare al consumatore sgradevole ma non insuperabile (“Penso che gli italiani capirebbero”, ha detto recentemente Lorenzin), il problema è proprio che l’aumento non potrà essere di soli 20 centesimi. Il sistema di tassazione dei tabacchi in Italia prevede, infatti, una componente proporzionale al prezzo di vendita molto alta (la più alta in Europa): ad ogni aumento di prezzo in risposta a provvedimenti fiscali, le tasse stesse aumentano nuovamente, in modo automatico.
UN EURO IN PIU’ A PACCHETTO – A spiegarlo è, tra gli altri, il professor Paolo Liberati, docente di Scienza delle Finanze all’Università Roma Tre: “La tassazione dei tabacchi è molto particolare e un aumento di tasse di venti centesimi a pacchetto potrebbe voler dire un aumento molto più elevato del prezzo finale di vendita che abbiamo stimato fino a un euro a pacchetto. C’è poi da tener presente che i tabacchi sono soggetti a un’imposizione armonizzata in Europa e questo aumento di un centesimo a sigaretta sarebbe una tassa separata, non armonizzata, diversa dalla struttura fiscale che gli altri Paesi europei applicano”.
Un euro in più, e non solo 20 centesimi: insomma 5 volte tanto, per il consumatore finale, per i prodotti superiori ai 4,40 euro a pacchetto, cioè una fetta molto ampia del mercato. Mentre, per tutti i prezzi inferiori, l’aumento del prezzo di vendita diventa di 30 centesimi a pacchetto: in ragione della tassazione fissa sui prezzi bassi, il moltiplicatore fiscale per questi prezzi è estremamente ridotto.
CALO DEI CONSUMI – E questo porta al secondo problema: “I consumi – spiega ancora il professor Liberati – potrebbero spostarsi dai prodotti più cari a quelli meno costosi o ancora peggio rivolgersi al mercato della contraffazione e del contrabbando, compromettendo così l’obbiettivo di raggiungere i 720 milioni di gettito ipotizzato”. Lo spostamento verso i prodotti di fascia più bassa crea però due grosse contraddizioni: innanzitutto rendere delle sigarette sensibilmente meno costose di altre contraddice le politiche di limitazione dell’accesso al fumo, soprattutto quello giovanile. Ma soprattutto, l’inevitabile spostamento dei consumi verso i prodotti di fascia di prezzo più bassa che contribuiscono meno al gettito fiscale, penalizzerà appunto lo stesso gettito fiscale.
MANCATO GETTITO E MERCATO NERO – Gli addetti ai valori parlano di un mancato gettito di circa mezzo miliardo di euro (secondo stime considerate da alcuni al ribasso) solo nel primo anno dal momento in cui verrebbe preso il provvedimento, e di circa 1,8 miliardi nei primi tre anni. Molto di più, insomma, dei 720 milioni in entrata messi in cantiere, considerando anche l’impatto negativo del mercato illecito, che da un aumento del genere trarrebbe senz’altro dei benefici.
Sui pacchetti dai 4,40 euro in su infatti l’aumento di prezzo sarebbe almeno del 18%, ovvero si andrebbe oltre i 5 euro e in molti casi oltre i 6 euro a seconda delle marche: già oggi, stando agli ultimi dati di KPMG, il commercio illecito in Italia ammonta a circa il 5,8% del consumo totale, con una perdita in termini di valore economico prossima a 822 milioni di euro in mancate accise, e senza considerare i rischi per la salute visto che le sigarette illegali, che arrivano per lo più dalla Bielorussia, sono prive di qualsiasi controllo.
CONSEGUENZE SULLA FILIERA – Una misura di questo tipo non avrebbe un impatto devastante solo sui produttori, sui consumatori e sui Monopoli di Stato, ma anche su un’intera filiera produttiva agroindustriale del Paese. La tabacchicoltura in Italia impiega circa 55 mila persone generando una produzione di tabacco di circa 48 milioni di kg all’anno, di cui circa 18 milioni in Campania. La coltivazione del tabacco genera un valore economico annuale di circa 200 milioni di euro l’anno, 70 dei quali in Campania. Se una misura come quella proposta dovesse passare, alla luce del significativo calo dei volumi di vendita di prodotto finito in Italia a seguito di un simile aumento dei prezzi, la tabacchicoltura secondo alcune stime ufficiose perderebbe oltre 50 milioni di euro in 3 anni (circa 40 milioni solo nel primo anno), con relativo impatto sull’occupazione.
NORMATIVA EUROPEA – Infine, come sottolineato anche dal professor Liberati, la scelta da parte del legislatore europeo è quella di evitare l’introduzione di ulteriori tasse che potrebbero compromettere l’armonizzazione del sistema delle accise all’interno dell’Unione europea. Proprio nel 2017, inoltre, inizierà il processo di revisione della Direttiva Fiscale 2011/64/UE: l’Italia, che già oggi è il Paese con la più alta tassazione proporzionale ai prezzi di vendita, rischierebbe di ostacolare ulteriormente questa armonizzazione.
UNA PROPOSTA – Impossibile dunque generare nuove risorse? Assolutamente no. Gli economisti sottolineano come, da un punto di vista teorico, sarebbe ad esempio corretto applicare la tassazione alle quantità vendute e non al prezzo di vendita: se l’Italia aumentasse progressivamente le tasse sulle sigarette, convergendo nello stesso tempo alla struttura media della tassazione europea, si otterrebbe un aumento di gettito nel tempo, tutelando in questo modo i consumatori e generando entrate aggiuntive per lo Stato.