Grandi dimissioni, flessibilità, smart working, settimana corta, mismatch. Sono i cinque grandi fenomeni che stanno rivoluzionando il mercato del lavoro italiano e internazionale creando una nuova realtà di fronte alla quali molte aziende si ritrovano impreparate e incapaci di agire. E non a caso sono anche i temi al centro del 52° Congresso Nazionale dell’AIDP – l’Associazione italiana per la Direzione del Personale – tenutosi a Firenze il 12 e il 13 maggio. Il titolo dell’evento è esemplificativo: “Le radici del domani: profondità di azione e velocità di pensiero” Un domani che impone rapidità nelle decisioni.
Nel corso del congresso, esperti, manager e professionisti delle risorse umane e una platea di circa mille partecipanti si sono confrontati per cercare di trovare una risposta, allo stesso tempo “profonda” e “veloce”, ai cambiamenti che stanno interessando il mercato del lavoro.
“Non è più il tempo del controllo. L’era della procedura, della norma, della linea guida non funziona più. Oggi bisogna ascoltare le persone e pensare al loro benessere. Questa è l’eredità che ci ha lasciato la pandemia, la nuova realtà di fronte alla quale dobbiamo, in quanto aziende e direttori del personale, trovare un approccio diverso e soluzioni differenti”, spiega a FIRSTonline Matilde Marandola, presidente nazionale dell’AIDP, associazione di riferimento in Italia per tutti coloro che si occupano professionalmente della relazione individuo/azienda, coniugando le esigenze dello sviluppo dell’impresa e delle persone.
Presidente Marandola, si parla sempre e da sempre di cambiamenti nel mercato del lavoro, ma stavolta sembra che la trasformazione sia arrivata davvero…
«C’è un cambiamento reale e anche molto veloce. Si tratta di una trasformazione digitale, ma soprattutto culturale di fronte alla quale, come Chair Manager e Chair Director, abbiamo la necessità di cambiare pelle. E insieme a noi devono farlo anche le aziende. Abbiamo bisogno di essere più profondi nell’analisi dei fenomeni, dei problemi e soprattutto delle opportunità. Dobbiamo ascoltare, essere empatici nei confronti delle persone. L’era della procedura, della norma, della linea guida non funziona più. Bisogna comprendere esigenze e bisogni del singolo, dare delle risposte personalizzate, ma soprattutto imparare a fare le domande giuste con profondità di pensiero».
Lei ha parlato di “velocità”. A questo proposito, fino a qualche mese fa sembrava che le cosiddette Grandi Dimissioni riguardassero solo gli Usa, ora invece sono esplose anche in Italia. Quali sono le cause e gli effetti di questo fenomeno?
«Le Grandi dimissioni sono ormai una realtà e un problema per tutte le aziende, prevalentemente per quelle del Centro-Nord, ma in ogni caso è un fenomeno sempre più diffuso in Italia. La pandemia ha cambiato le priorità e gli obiettivi di conciliazione della vita professionale e personale. Le persone si sono rese conto che non sono più disposte a soffrire per lavoro. Nel momento in cui si trovano in un clima sfavorevole, accumulano stress e incontrano situazioni nelle quali non stanno bene, non intendono più accettare queste condizioni, cosa che prima facevano. Quindi decidono di cambiare e lo fanno dando meno valore alla carriera e ai soldi, ma cercando un equilibrio e un benessere psicologico ed emotivo differente. Questa è l’eredità che ci ha lasciato la pandemia, la nuova realtà con cui Direttori del personale e aziende devono fare i conti e di fronte alla quale dobbiamo trovare un approccio diverso e soluzioni differenti. Come sempre l’ascolto ci salva».
E quali potrebbero essere queste soluzioni?
«Occorre partire dalla comprensione delle esigenze. Non diamo per scontato che lo smart working o la settimana corta siano sempre la risposta, ma dobbiamo avere il coraggio di sperimentare. Oggi, soprattutto i giovani, chiedono lo smart working perché inquina meno, ha un minor impatto, comporta minori spese. Non solo. Garantisce maggiore flessibilità e amplia il mercato del lavoro. Perché se io ho un’azienda a Brescia posso anche assumere una persona che si trova a Messina e farle fare smart working. Questo dunque allarga il bacino di candidati, ma occorre avere il coraggio di lavorare per obiettivi e lasciare andare i paradigmi del passato legati alla presenza, all’orario e via dicendo».
Molte aziende temono però che lo smart working pregiudichi la produttività…
«Io non credo a questo paradigma, non è più il tempo del controllo. La pandemia ci ha insegnato che non si può controllare tutto. Anche una persona che lavora in presenza può essere improduttiva, demotivata, odiare il proprio capo. Eppure timbra il cartellino. Ma questo non significa niente. Bisogna lavorare sull’ingaggio, sulla motivazione e sulla fiducia. Questo annulla le distanze. Se abbiamo una relazione di fiducia, di correttezza possiamo lavorare anche ai due poli opposti del mondo».
Parliamo della settimana corta. Un esperimento su larga scala è stato fatto nel Regno Unito e anche la Spagna ci sta provando. In Italia invece l’iniziativa è lasciata alle singole aziende. Qual è il suo giudizio su questo grande tema?
«Il nostro centro di ricerca coordinato dal Professor Frigelli ha effettuato una survey molto interessante che ci indica che chi si occupa di persone e di organizzazione non è assolutamente contrario alla settimana corta, ma bisogna comprendere gli impatti normativi ed economici. Siamo pronti a una sperimentazione e noi come AIDP sicuramente spingeremo in tal senso. Gli esperimenti fatti all’estero sono incoraggianti, ma occorre capire bene come configurare questa nuova realtà: se ridurre l’orario di lavoro settimanale o se, al contrario, aumentare l’orario giornaliero nei quattro giorni. Serve studiare, capire e aprire un dialogo con i sindacati. In ogni caso credo che i tempi siano maturi per perché la produttività dipende dalla motivazione e dalle competenze, non dall’orario».
A proposito di competenze, in Italia il mismatch è sempre più ampio, un problema che l’associazione vede molto da vicino. Come si risolve?
«Dobbiamo fare rete con le scuole e con le università per avere dei gruppi di lavoro comuni. L’AIDP sotto questo punto di vista ha tanti progetti, molto importanti, che coinvolgono anche le professionalità Stem per le giovani ragazze e donne. Penso che entrare nelle scuole, raccontare i mestieri che fino a poco tempo fa venivano considerati prevalentemente maschili, ma che invece non hanno sesso – perché le competenze non hanno sesso – sia necessario e doveroso».
Veniamo al Congresso: quali sono gli obiettivi che l’AIDP si prefigge con questa due giorni di ncontr?
«Abbiamo quasi mille presenze da tutta Italia e il nostro obiettivo è quello di apprendere gli uni dagli altri, tornare a casa con nuovi progetti, idee e relazioni, trovare insieme la via per implementare un nuovo modo di occuparsi delle persone, mettendole al centro».
Possiamo concludere dicendo che il cosiddetto “Benessere” non è più solo una parola?
«Il benessere è un obbligo per tutte le realtà. Quello che in aziende grandi ed evolute ormai viene dato per scontato, magari fatica un po’ ad entrare nella cultura di aziende medie o piccole. Proprio per questo motivo l’AIDP ha implementato un’area Pmi che lavora proprio per creare la cultura della centralità della persona anche in micro imprese che un direttore del personale non ce l’hanno nemmeno. Anche l’imprenditore deve essere l’owner di una cultura etica che mette al centro la persona. L’associazione è a loro disposizione per parlare di modelli e strumenti che possono cambiare le cose».