Che cosa si può fare per far funzionare il quadrato magico nelle imprese industriali italiane?Qui le opinioni si divaricano molto. La tesi sostenuta in questo scritto è che si possa fare molto con intelligenti politiche industriali. Occupiamoci però dell’opinione contraria. Quella di quanti sostengono che le politiche industriali sono inutili, o, peggio, spesso dannose. E che invece occorre semplicemente ricreare le condizioni perché le imprese possano, da se stesse, tornare al successo. Questa tesi accomuna visioni diverse. Vediamole di seguito. Semplificando, la prima sostiene che le politiche industriali non vadano fatte per motivi ideologici; la seconda che non vadano fatte per problemi di applicazione, e perché i loro effetti sono dubbi; la terza che vadano fatte solo indirettamente, attraverso azioni sulle condizioni esterne che possono facilitare la vita delle imprese.
Basterà solo ricordare che per tantissimi economisti, tra cui molti premi Nobel, non è così, e che, soprattutto con la crisi internazionale, tanti hanno ricominciato a riflettere sui danni che può provocare la mancanza di accorte politiche e di regolazioni, liberandosi da vincoli ideologici. Il libero mercato in natura non esiste; i suoi confini sono sempre frutto di una decisione collettiva di tipo politico; tantissime decisioni politiche influenzano comunque le imprese e le loro dinamiche; molti mercati presentano forme di concorrenza imperfetta (monopoli, quasi-monopoli, oligopoli), per cui anche in via teorica lasciare mano libera alle imprese non produce effetti positivi; vi sono diffuse esternalità. Il succo della con trapposizione è che da un lato vi è una posizione estre ma: viva il mercato sempre e comunque; dall’altro una posizione pragmatica: verifichiamo se e quando servono le politiche pubbliche. D’altra parte, sia detto per inci so, ragionare – più che esprimere professioni di fede – dovrebbe essere una peculiarità non solo dell’economia ma dell’insieme della ricerca e dell’insegnamento. Ma questa è un’altra storia. Piuttosto c’è un dato molto interessante: proprio nei casi in cui meno ci sono politiche esplicite, sono più frequenti decisioni particolaristiche.
Le politiche economiche non sono solo un terreno di confronto di idee, ma anche di scontro di interessi costituiti; quelli forti riescono a farsi valere, spesso pro prio mascherandosi dietro continui peana per il libero mercato (per gli altri), lavorando con capacità e rapidità in stanze oscure per i propri interessi. Non mancano, anche nelle recenti vicende italiane, molti esempi, a partire dai capitani coraggiosi dell’Alitalia.
La seconda visione è decisamente più interessante. Basterà qui accennarne perché sarà ripresa in seguito. In sostanza: si può discutere in teoria di politiche in dustriali, ma nella realtà molte di esse sono fallaci; in Europa e nel resto del mondo vi è una lunga storia di fallimenti nelle decisioni pubbliche prese per influenza re i comportamenti delle imprese. Un’analisi storica più equilibrata porta però a riconoscere che la storia della politica industriale è ricca anche di grandi successi. Certamente non è infallibile: per questo lo scetticismo sull’efficacia degli interventi va preso molto sul serio. Non ci si può accontentare di provare in teoria l’utilità di determinati strumenti: occorre verificare nella realtà che essi funzionino veramente.
La terza visione merita un commento più esteso. Ciò che davvero serve alle imprese italiane, si dice, sono condizioni più favorevoli per le proprie attività, attraverso politiche indirette, orizzontali. È un modo di ragionare importante, che ha ispirato, almeno fino al 2010, i documenti comunitari e le conseguenti decisioni dell’Unione Europea, ad esempio in materia di aiuti alle imprese. Quali sono queste condizioni? La lista di solito parte con la tutela della concorrenza. Rompere le posizioni di rendita e di privilegio di cui godono alcuni, soprattutto nei settori dei servizi o dell’energia, dato che nella manifattura sono ormai da tempo più rare, grazie all’integrazione europea e al mercato unico co munitario. Stimolare la concorrenza, così che i migliori emergano e possano offrire beni e servizi a condizioni più favorevoli, a vantaggio di tutti. La concorrenza fa un gran bene alle imprese; una maggiore concorrenza nel terziario può aiutare, e molto, l’industria.
Segue un altro argomento importante: la semplificazione amministrativa nella vita delle imprese e nei rapporti con pubbliche amministrazioni. Anche questo è poco controverso: la riduzione e la semplificazione delle combenze che gravano sulle imprese e le procedure che rendono lineari, trasparenti, prevedibili, i rapporti con le pubbliche amministrazioni sono importanti. I dati del Doing Business della Banca Mondiale consentono di valutare come anche su questo terreno ci sia ancora molto da fare in Italia. E a questi temi si affianca sempre l’efficienza del servizio giustizia, fondamentale per assicurare la tutela dei diritti di proprietà e dirimere le con troversie. Anche in questo caso, tutti i dati mostrano come la situazione italiana sia negativa in comparazione internazionale. Tutela della concorrenza, semplificazioni, efficienza del servizio giustizia rappresentano un capitolo importante delle politiche per le imprese, come la Banca d’Italia non smette di sottolineare.
Naturalmente anche le condizioni infrastrutturali sono importanti: in un mondo sempre più integrato, la disponibilità di connessioni a banda larga per scambiare dati e vendere servizi e di efficaci e poco costosi servizi di trasporto di merci e persone rappresentano elementi decisivi per garantire competitività alle imprese. Vi è grande consenso sull’importanza cruciale di mettere a disposizione delle imprese lavoratori ben qualificati, do tati di un elevato livello di istruzione e di un adeguato bagaglio di conoscenze. Entrambi questi temi meriterebbero riflessioni approfondite, che ci porterebbero però lontano, deviando il corso del ragionamento. Una, tuttavia, si impone: in entrambi i casi i risultati raggiunti dal nostro paese sono inferiori rispetto alle medie europee. Per di più, da alcuni anni a questa parte lo sforzo di investimento in entrambi gli ambiti si sta con traendo. Le realizzazioni infrastrutturali e le stesse ma nutenzioni si sono fortemente ridotte con il crollo della spesa in conto capitale; le risorse dedicate al sistema dell’istruzione, in particolare universitaria, sono state tagliate, molto più che nella maggior parte degli altri paesi avanzati.
Se queste tendenze delle politiche delle infrastrutture e dell’istruzione dovessero perdurare, i riflessi negativi sulla competitività delle imprese italiane sarebbero significativi. Vi è poi un tema più controverso dei precedenti. Alcuni ritengono che per rilanciare le imprese italiane occorra aumentare la flessibilità nell’impiego del lavoro e ridurne il costo. La flessibilità è un’arma a doppio taglio. Da un lato è molto utile: consente alle imprese di accrescere e ridurre la propria forza lavoro con facilità a seconda degli andamenti di mercato; si dice: proprio perché la possono ridurre, non avranno problemi ad assumere. Ancora, consente di spostare la forza lavoro alle imprese in declino a quelle in sviluppo, accompagnando gli indispensabili processi di riaggiu stamento dell’apparato industriale. Dall’altro è però controproducente: una lunga permanenza dei lavoratori presso le imprese determina un gioco a somma positiva infatti i primi sono molto motivati, sviluppano un senso di appartenenza, collaborano attivamente al successo comune; le seconde possono investire in formazione e miglioramento dei propri lavoratori, sapendo che po tranno godere a lungo e pienamente dei vantaggi delle loro maggiori competenze. La situazione più opportuna sta nel mezzo; e come tutte le soluzioni intermedie può essere continuamente rivista. Ma certamente – per dirla nel gergo del dibattito italiano – abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non è proprio la chiave magica per rilanciare le imprese italiane.
Quanto al costo del lavoro, un suo livello contenuto certamente aiuta la competitività delle imprese. Una politica di bassi salari ha mille controindicazioni sociali ed economiche, a partire dalla compressione della domanda interna; si può ridurre invece la componente fiscale del costo del lavoro, oggi in Italia molto alta. Purtroppo, è difficile immaginare una riduzione davvero significativa nelle attuali condizioni della finanza pubblica; soprattutto in un quadro europeo che porta i governi a concentrare la tassazione sul lavoro essendo i capitali mobili. Ogni sforzo è comunque opportuno. In generale, un costo del lavoro contenuto aiuta; ma non è la condizione decisiva per competere in un quadro internazionale in cui vi sono paesi con salari pari ad un decimo o ad un ventesimo di quelli italiani. Le stesse analisi della Banca d’Italia portano ad escludere per l’ultimo decennio che «il costo del lavoro possa essere la determinante più rilevante della perdita di competitività rispetto agli altri paesei europei”.
Quel che conta è il rapporto tra costo e produttività: la Germania ha successo, con salari molto più alti di quelli italiani, grazie a livelli più elevati di produttività. Per dirla banalmente, l’Italia non può che inseguire la Germania, e non la Cina. È la sfida della produttività, quella decisiva.