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“Serve davvero una politica industriale?”

DAL LIBRO “CACCIAVITE, ROBOT E TABLET” di Dario Di Vico e Gianfranco Viesti, edito da “il Mulino” – Come far ripartire le imprese? Oggi serve davvero una politica industriale? “L’industria – scrive Viesti, economista e ordinario dell’Università di Bari – è e deve restare il motore dell’economia italiana” ma decisiva è la sfida della produttività

“Serve davvero una politica industriale?”

Che cosa si può fare per far funzionare il quadrato magico nelle imprese industriali italiane?Qui  le opinioni  si divaricano molto. La tesi sostenuta in questo scritto è che si possa  fare molto con intelligenti politiche industriali. Occupiamoci però dell’opinione contraria. Quella di  quanti  sostengono  che le politiche  industriali  sono inutili, o, peggio, spesso dannose. E che invece occorre semplicemente ricreare le condizioni perché le imprese possano, da se stesse, tornare al successo. Questa tesi accomuna visioni diverse. Vediamole di seguito. Semplificando, la prima sostiene che le politiche industriali non vadano fatte per motivi ideologici; la seconda che non  vadano fatte per problemi  di applicazione, e perché i loro effetti sono dubbi; la terza che vadano fatte solo indirettamente, attraverso azioni sulle condizioni esterne che possono facilitare la vita delle imprese.

Cominciamo dalla  prima. Estrema, ma piuttosto diffusa: meno lo Stato fa, meglio è; la miglior politica industriale è l’assenza di politica industriale. In primo luogo perché così si riduce la spesa e questo consente di ridurre la tassazione, lasciando nelle tasche delle famiglie e degli imprenditori  quanti più soldi  possibile; gli imprenditori  sapranno  ben loro cosa fare, e faranno immancabilmente  la cosa giusta, perché il mercato saprà  premiare e sanzionare, sempre e comunque. Intendiamoci: un livello di tassazione, specie sulle im­prese, più contenuto non  può  essere  che  benvenuto, ma il problema  è come finanziarlo.  Se per questo si rinuncia a strumenti in grado di innescare le trasformazioni nell’industria  italiana il bilancio delle stesse imprese  è assai dubbio.  In  secondo  luogo perché se la mano pubblica interviene fa, per definizione, solo danni; distorce  le attività  economiche,  premia  e punisce a suo – sempre distorto – giudizio. Il mercato assume una dimensione etica: non un utile strumento per allocare le risorse ma un fine in sé. Non è questa la  sede  per  discutere  di politiche economiche. 

Basterà solo  ricordare  che  per  tantissimi  economisti,  tra  cui molti  premi  Nobel,  non  è così, e che,  soprattutto con  la crisi internazionale,  tanti  hanno  ricominciato a riflettere sui danni che  può  provocare  la mancanza di accorte politiche e di regolazioni, liberandosi da vincoli ideologici. Il libero mercato in natura  non esiste; i suoi confini sono sempre frutto di una decisione collettiva di tipo  politico; tantissime decisioni politiche influenzano comunque le imprese e le loro dinamiche; molti mercati presentano forme di concorrenza imperfetta (monopoli, quasi-monopoli, oligopoli), per cui anche in via teorica lasciare  mano libera  alle imprese  non  produce  effetti positivi; vi sono diffuse esternalità. Il succo della con­ trapposizione è che da un lato vi è una posizione estre­ ma: viva il mercato sempre e comunque; dall’altro  una posizione pragmatica: verifichiamo se e quando servono le politiche pubbliche. D’altra  parte, sia detto per inci­ so, ragionare – più che esprimere professioni di fede – dovrebbe essere una peculiarità non solo dell’economia ma dell’insieme  della ricerca e dell’insegnamento. Ma questa  è un’altra storia.  Piuttosto c’è un dato molto interessante: proprio nei casi in cui meno ci sono politiche esplicite, sono più frequenti decisioni particolaristi­che.

Le politiche economiche non sono solo un terreno di confronto di idee, ma anche di scontro di interessi costituiti; quelli forti riescono a farsi valere, spesso pro prio mascherandosi dietro continui peana per il libero mercato (per gli altri), lavorando con capacità e rapidità in stanze oscure  per i propri  interessi. Non  mancano, anche  nelle  recenti  vicende  italiane,  molti  esempi,  a partire dai capitani coraggiosi dell’Alitalia.

La seconda visione è decisamente più interessante. Basterà qui accennarne  perché sarà ripresa in seguito. In sostanza: si può  discutere  in teoria di  politiche in­ dustriali,  ma nella realtà molte di esse sono fallaci; in Europa e nel resto del mondo vi è una lunga storia di fallimenti nelle decisioni pubbliche prese per influenza­ re i comportamenti delle imprese. Un’analisi storica più equilibrata  porta  però a riconoscere che la storia della politica industriale  è ricca anche  di grandi  successi. Certamente  non è infallibile: per questo lo scetticismo sull’efficacia degli interventi  va preso  molto sul serio. Non ci si può accontentare di provare in teoria l’utilità di determinati strumenti: occorre verificare nella realtà che essi funzionino veramente.

La  terza  visione  merita  un  commento  più  esteso. Ciò  che  davvero  serve  alle imprese  italiane,  si dice, sono condizioni più favorevoli per le proprie attività, attraverso  politiche  indirette,  orizzontali.  È un  modo di ragionare importante, che ha ispirato, almeno fino al 2010, i documenti comunitari e le conseguenti decisioni dell’Unione  Europea,  ad  esempio  in  materia  di  aiuti alle imprese. Quali sono queste condizioni? La lista di solito parte con la tutela della concorrenza. Rompere le posizioni di rendita e di privilegio di cui godono alcuni, soprattutto nei settori  dei servizi o dell’energia,  dato che  nella manifattura  sono  ormai da  tempo  più  rare, grazie all’integrazione europea e al mercato unico co­ munitario. Stimolare la concorrenza, così che i migliori emergano e possano offrire beni e servizi a condizioni più favorevoli, a vantaggio di tutti.  La concorrenza  fa un gran  bene alle imprese; una maggiore concorrenza nel  terziario  può  aiutare,  e molto,  l’industria. 

Segue un altro argomento importante: la semplificazione amministrativa nella vita delle imprese e nei rapporti  con pubbliche  amministrazioni. Anche  questo è poco controverso: la riduzione e la semplificazione delle combenze che gravano sulle imprese e le procedure che rendono lineari, trasparenti,  prevedibili, i rapporti  con le pubbliche amministrazioni sono importanti. I dati del Doing Business della Banca Mondiale consentono di va­lutare come anche su questo terreno ci sia ancora molto da fare in Italia. E a questi temi si affianca sempre l’ef­ficienza del servizio giustizia, fondamentale per assicu­rare la tutela dei diritti di proprietà e dirimere le con­ troversie. Anche in questo  caso, tutti  i dati  mostrano come la situazione italiana sia negativa in comparazione internazionale. Tutela della concorrenza, semplificazioni, efficienza del servizio giustizia rappresentano un capi­tolo importante delle politiche per le imprese, come la Banca d’Italia non smette di sottolineare.

Naturalmente anche le condizioni infrastrutturali sono importanti: in un mondo sempre  più integrato,  la di­sponibilità di connessioni a banda larga per scambiare dati e vendere servizi e di efficaci e poco costosi servizi di trasporto di merci e persone rappresentano elementi decisivi per garantire  competitività  alle imprese. Vi è grande consenso sull’importanza  cruciale di mettere  a disposizione delle imprese lavoratori ben qualificati, do­ tati di un elevato livello di istruzione e di un adeguato bagaglio di conoscenze.  Entrambi  questi temi meriterebbero riflessioni approfondite, che ci  porterebbero però lontano, deviando il corso del ragionamento. Una, tuttavia, si impone: in entrambi i casi i risultati raggiun­ti  dal  nostro  paese sono  inferiori  rispetto  alle medie europee.  Per di più, da alcuni anni a questa  parte  lo sforzo di investimento in entrambi gli ambiti si sta con­ traendo. Le realizzazioni infrastrutturali e le stesse ma­ nutenzioni si sono fortemente ridotte con il crollo della spesa in conto capitale; le risorse dedicate al sistema dell’istruzione, in particolare universitaria, sono state tagliate, molto  più  che nella maggior parte  degli altri paesi avanzati.

Se queste tendenze delle politiche delle infrastrutture e dell’istruzione  dovessero perdurare, i riflessi negativi sulla competitività delle imprese italiane sarebbero significativi. Vi è poi un tema più controverso  dei  precedenti. Alcuni ritengono che per rilanciare le imprese italiane occorra aumentare la flessibilità nell’impiego del lavoro e ridurne il costo. La flessibilità è  un’arma  a doppio taglio. Da  un lato  è molto  utile: consente alle impre­se di accrescere e ridurre la propria forza lavoro con facilità a seconda degli andamenti di mercato; si dice: proprio perché la possono ridurre, non avranno proble­mi ad assumere. Ancora, consente di spostare la forza lavoro alle imprese in declino a quelle in sviluppo, accompagnando gli indispensabili processi di riaggiu­ stamento  dell’apparato industriale. Dall’altro è però controproducente:  una lunga permanenza dei lavoratori presso le imprese determina un gioco a somma positiva infatti i primi sono molto motivati, sviluppano un senso di appartenenza, collaborano  attivamente al successo comune; le seconde possono investire in formazione e miglioramento dei propri lavoratori, sapendo che po­ tranno godere a lungo e pienamente dei vantaggi delle loro  maggiori competenze.  La situazione più opportuna sta nel mezzo; e come tutte  le soluzioni intermedie può essere continuamente rivista. Ma certamente – per dirla nel gergo del dibattito italiano – abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori non è proprio la chiave magica per rilanciare le imprese italiane.

Quanto  al costo del lavoro, un suo livello contenuto certamente aiuta la competitività delle imprese. Una politica di bassi salari ha mille controindicazioni sociali ed  economiche,  a partire  dalla  compressione  della domanda interna; si può ridurre invece la componente fiscale del costo del lavoro, oggi in Italia molto alta. Purtroppo, è difficile immaginare una riduzione dav­vero significativa nelle attuali  condizioni della finanza pubblica; soprattutto in un quadro europeo che porta i governi a concentrare la tassazione sul lavoro essendo i capitali mobili. Ogni sforzo è comunque opportuno. In generale, un costo del lavoro contenuto  aiuta; ma non è la condizione  decisiva per competere  in  un quadro internazionale in cui vi sono paesi con salari pari ad un decimo o ad un ventesimo di quelli italiani. Le stesse analisi della Banca d’Italia portano ad escludere per l’ultimo decennio che «il costo del lavoro possa essere la determinante più rilevante della perdita di competiti­vità rispetto agli altri paesei europei”.

Quel che conta è il rapporto tra costo e produttività: la Germania ha successo, con salari molto più alti di quelli italiani, grazie a livelli più elevati di  produttività. Per  dirla banalmente, l’Italia non può che inseguire la Germania, e non la Cina. È la sfida della produttività, quella decisiva.

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