Le prime reazioni a caldo esposte nella grande stampa nazionale stupiscono per non avere colto pienamente nelle considerazioni finali del governatore Visco l’asse portante delle considerazioni stesse: le condizioni attuali e le prospettive dei singoli paesi dell’area dell’euro sono strettamente legate a quelle della costruzione europea (pag.13). Molte reazioni immediate hanno infatti privilegiato gli aspetti domestici (cuneo fiscale, investimenti privati e pubblici, piccole grandi imprese e banche italiane, e così via) trascurando quell’impianto europeistico (opportunamente corredato con il ricordo di Altiero Spinelli ed il manifesto di Ventotene) dalla cui realizzazione conseguono alcune delle ricette domestiche, soprattutto con riferimento alla stabilità finanziaria da assicurare all’area dell’euro, da intendersi al pari di un bene comune a livello sovranazionale. Si è trascurato che le prospettive di crescita dipendono fortemente anche dalla perdita di sovranità di ogni singolo paese dell’area euro.
Non stupisce invece che ciò sia stato colto con rabbia dal leghista Salvini che ha proposto sbrigativamente di “mandare in galera” il Governatore Visco (Repubblica.it del 31 maggio 2016), forse nel timore che le ineccepibili e lucide considerazioni dello stesso Visco potessero fare breccia nella mente di qualche suo elettore, ma nel contempo ignorando, il misero, che stava evocando le vicende che colpirono la Banca d’Italia nelle persone di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli nel corso del periodo più torbido della repubblica italiana.
Urticante per molti dei presenti deve essere stata il paragrafo, non a caso il più lungo e posto al centro delle considerazioni finali, recante il titolo: “La costruzione europea: progressi e incertezze” (pp. 13-17). Parimenti urticante deve essere apparso il sostegno del governatore Visco alla opportunità di procedere alla perdita di sovranità della politica domestica italiana con “l’affiancamento o la sostituzione di strumenti di intervento nazionali con analoghi strumenti sovranazionali” o per disporre di “un bilancio pubblico condiviso, che non può che passare attraverso ulteriori cessioni di sovranità nazionale” che “garantirebbe la possibilità di attuare politiche coerenti con le condizioni cicliche delle diverse economie”. Così come urticante è il passaggio ove si sostiene che “Sarebbe in effetti illusorio credere di poter governare l’economia e la finanza, le cui dimensioni globali sono manifeste, nel ristretto ambito dei singoli paesi europei … L’unione dell’Europa si compie con lo sviluppo di istituzioni democratiche designate a gestire la sovranità comune” e che occorre “l’affiancamento o la sostituzione di strumenti di intervento nazionali con analoghi istituti sovranazionali”.
Questo breve florilegio, tratto dalle considerazione finali del Governatore Visco, illustra con sufficiente chiarezza l’esigenza che il mantra della politica nazionale “si cresce con le riforme”, deve oggi essere opportunamente completato con “le riforme che portano a perdere sovranità nazionale”.
In quest’ottica le considerazioni del Governatore Visco sollecitano alcune riflessioni di non breve periodo, sulla struttura del sistema bancario italiano e sulla correlata modesta contribuzione allo sviluppo dell’economia reale. Annota infatti il governatore Visco che “spinge alla revisione del modello di attività anche l’evoluzione del sistema finanziario verso un assetto in cui canali di finanziamento dell’economia alternativi a quello bancario svolgono un ruolo crescente (…)” mentre “in Italia l’intermediazione non bancaria resta decisamente meno sviluppata che in altri paesi”. Invero, dall’inizio degli anni duemila, malgrado l’affermazione della banca universale, la dipendenza delle imprese dal credito bancario è continuata in proporzioni sconosciute in economie più consolidate. Si aggiunga che l’aggregazione di molti istituti di credito non pare che abbia comportato significative modificazioni alla propensione delle banche a perseverare nella perniciosa prassi del “legame con il territorio”. Annota al riguardo il governatore Visco che “è necessario procedere speditamente (…) superando vecchie logiche di mero presidio del territorio che hanno sovente contribuito ad acuire, anziché attenuare, le difficoltà dell’economia reale e delle stesse banche”.
In Italia, l’industria bancaria si mostra sia inidonea a richiedere la partecipazione con capitale di rischio ai soggetti affidati, che così vengono esonerati da correre ogni rischio dell’investimento; sia, lo annotava il Ministro Andreatta già nel 1981, reticente a promuovere “attività di “investment banking (…) in grado di selezionare e preparare operazioni di offerta al pubblico di azioni di società che intendano allargare la propria compagine e farsi quotare in borsa” (Intervento del ministro del Tesoro all’assemblea dell’ABI, 24 giugno 1981, p. 24, mimeo).
Da sempre l’industria bancaria italiana mostra l’assenza di una consolidata e diffusa professionalità nel settore dell’investment banking: con l’eccezione di Mediobanca, che tuttavia dava le carte sempre alle stesse famiglie, e all’IMI che una volta disponeva di un corpo di ingegneri capaci di valutare il merito di credito dell’impresa che lo richiedeva. Una volta molte banche disponevano di ingegneri e settorialisti che visitavano le imprese affidate per valutare sul campo i rischi connessi agli investimenti e alla bontà del prenditore di fondi. Oggi gli ingegneri, insieme a matematici e fisici, stanno nel back office ad elaborare sofisticati strumenti matematici e statistici per la valutazione del rischio e l’assorbimento di capitale. Nulla di male, se non fosse che nessuno visita più le imprese per dare al back office le informazioni sensibili per valutare le carte presentate dal prenditore di fondi.
In conclusione, sarebbe dunque opportuno riflettere sulla opportunità di procedere alla separazione della banca d’investimento da quella commerciale, che oggi coesistono all’interno della banca universale e del gruppo polifunzionale. Ne conseguirebbe che la raccolta di risparmio della banca d’investimento verebbe operata principalmente tramite l’emissione di obbligazioni in sostituzione di quelle bancarie la cui consistenza è oggi pari al 38 per cento del Pil (Relazione annuale, p. 159). A sua volta la banca commerciale, come nel passato ma oggi in presenza del bail in, dovrebbe limitarsi a raccogliere risparmio a breve (garantito fino ad un certo limite, come già è previsto nell’ordinamento italiano ed escluso dal bail in fino a centomila di depositi in euro) ed a trasformare le scadenze per l’erogazione dei finanziamenti alle famiglie e alle piccole e medie imprese.