La domanda è d’obbligo dopo i tumulti di piazza che hanno seguito la decisione del capo dello Stato del Senegal di rinviare di dieci mesi le elezioni presidenziali previste per il 25 febbraio: anche Dakar, una delle più stabili democrazie africane, raggiungerà gli altri Paesi dell’area a ridosso dell’Equatore, che hanno scelto, uno dietro l’altro, otto negli ultimi tre anni, la strada del colpo di stato militare e della dittatura?
Pur con le dovute prudenze, il panorama che offriva nelle ultime ore la capitale, fa sperare in un epilogo diverso per il Senegal, un finale in cui almeno i militari non c’entrano con la crisi istituzionale in atto. Perché nelle ultime ore, le notizie più importanti a Dakar sono apparse le dimissioni di due ministri mentre gli scontri di piazza hanno iniziato a raffreddarsi.
Per la cronaca hanno lasciato il governo il ministro dell’industria e la ministra responsabile del comitato per la trasparenza nelle industrie estrattive. Ma qualcuno ha avanzato l’ipotesi che stiano per arrivare quelle del premier in carica, Amadou Ba, delfino di Macky Sall e, colui che, nelle speranze di questi, sarebbe dovuto diventare suo successore.
Insomma si starebbe di fronte a una crisi politica, cosa del tutto differente da un colpo di stato con conseguente sospensione delle regole democratiche.
Quello che è accaduto tuttavia non va giudicato di poco conto. Il rinvio del voto e successivi tumulti, sarebbero accaduti proprio a causa della scelta del candidato da parte di Macky Sall, almeno secondo la gran parte degli analisti.
Sabato scorso il rinvio delle elezioni ha fatto scattare le violenze
Il premier Ba, apprezzato tecnico, ma privo di carisma politico, sarebbe stato osteggiato anche dentro il partito che avrebbe dovuto sostenerlo. E quando il presidente si sarebbe accorto che non ce l’avrebbe fatta a essere eletto, ha preferito rovesciare il tavolo. Di qui il drammatico discorso televisivo di sabato scorso in cui aveva annunciato il rinvio delle elezioni, motivato con il fatto che, prima del voto, si sarebbe dovuto fare chiarezza sulle accuse di corruzione mosse da qualche candidato al Consiglio costituzionale, organismo dal quale dipende l’avvio della campagna elettorale. Il rinvio è stato poi confermato due giorni dopo dal Parlamento, che ha indicato la nuova data delle presidenziali nel 15 dicembre, scelta raggiunta non senza incidenti nel palazzo, durante i quali deputati dell’opposizione erano stati trascinati fuori dall’emiciclo di forza dalla polizia.
Vacilla la reputazione del presidente del Senegal, Macky Sall
Al netto delle violenze, quello che è stato definito dalle opposizioni “un golpe istituzionale”, è comunque un macchia sulla reputazione di Macky Sall, finora stimato politico e buon amministratore. Perché è la seconda volta in pochi mesi che in Senegal trema il sistema democratico.
La scorsa estate accadde dopo l’arresto del principale esponente dell’opposizione, Ousmane Sonko, 49 anni, molto amato dai giovani, accusato per vari reati, fra cui uno stupro, e poi condannato per diffamazione. In quel caso Macky Sall, che conclude quest’anno i due mandati, fu sospettato dagli avversari di aver influito sul giudizio per levare di mezzo l’oppositore e potersi ricandidare per la terza volta. E forse qualcosa di vero doveva esserci se bastò la sua dichiarazione di non volersi ripresentare alle elezioni per spegnere l’incendio.
Stavolta aver deciso di non votare nei tempi previsti appare un altro colpo alla stabilità democratica. Anche se i senegalesi, a proposito delle regole di governo, hanno sempre dimostrato di essere refrattari al mito dell’uomo forte al comando (89%), di sostenere il multipartitismo (87%) e preferire la democrazia ad ogni altro sistema politico(l’84%). Questo secondo Afrobarometer, la rete di ricerca panafricana. E almeno finora.
Con questo non si vuole dire che il Senegal sia immune da pericoli di involuzione e che non sia entrato in un periodo di incertezze e di “torbidi”, ma solo che la tradizione democratica in questa parte del continente africano è profonda e arriva da lontano.
Senegal, un modello economico per l’Africa occidentale
Non solo il Senegal è l’unico Paese dell’Africa occidentale a non avere mai subito colpi di stato nella sua storia recente, ma al contrario ha aiutato, nel 2017, il vicino Gambia a cacciare il dittatore Yahya Jammeh che si rifiutava di riconoscere la sconfitta elettorale. Senza contare il ruolo chiave del presidente nell’ambito della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao in francese, Ecowas, in inglese) per costringere le giunte militari a concedere le elezioni e a restituire il potere ai governi civili. Inoltre il Senegal è considerato un modello anche dal punto di vista economico alla cui nascente industria di petrolio e gas ha contribuito la presenza di molti investitori stranieri, cresciuti del 21% negli ultimi tre anni, come l’italiana Saipem, società del gruppo Eni, che in consorzio con la società francese Eiffage, si è aggiudicata un appalto nel campo gasiero per la costruzione di un impianto che si trova al largo del confine marittimo tra Mauritania e Senegal, una commessa da 350 milioni di euro.
Negli ultimi anni i proventi incassati, cosa non banale in Africa, sono stati utilizzati soprattutto per realizzare infrastrutture, come strade e ferrovie; e grandi opere, come l’aeroporto internazionale di Dakar; ma anche interi nuovi quartieri per residenze civili e alberghi più o meno di lusso.
Una nuova Dakar
L’abbiamo vista con i nostri occhi questa nuova Dakar, il mese scorso, arrivando nella capitale per partecipare alle Assise Internazionali dell’Upf, l’Union de la presse francophone, l’associazione dei giornalisti francofoni, potentissima organizzazione nelle ex colonie della Francia, prova ne sia il fatto che l’incontro sia stato aperto alla presenza del presidente della Repubblica Macky Sall e si sia concluso con quella del primo ministro Amadou Ba, i protagonisti degli ultimi avvenimenti.
È ampia, luminosa e brillante la parte nuova della capitale. In netto contrasto con la vecchia città, scomposta tra vicoli stretti e affollati da un’umanità gentile e accomodante che, per sbarcare il lunario, propone sui marciapiedi o in minuscole bottegucce la merce più varia, dalle classiche maschere africane, agli zainetti da spalla occidentali; dai tessuti stampati ai jeans bucati; dalla frutta esotica alle spezie colorate; fino agli uccellini in gabbia.
E abbiamo percorso la nuova autostrada, l’A2, il cui tratto dall’aeroporto è stato aperto nel 2018, e che è stata realizzata, oltre che con i proventi di gas e petrolio, anche grazie a un prestito cinese. Quanto all’aeroporto internazionale, situato a 53 chilometri dal centro della città e inaugurato nel 2017, è stato costruito per la gran parte con i soldi della potente famiglia di costruttori saudita Bin Laden, (sì, quella del terrorista), e intitolato al primo senegalese eletto nel parlamento francese nel 1914, Blaise Diagne.
Per capire come sia cambiata Dakar basti pensare che nel 1970 la città aveva 400mila abitanti, mentre nel censimento del 2014 se ne sono contati oltre 3milioni.
La struttura cittadina della Capitale
La struttura cittadina è organizzata secondo “arrondissement” – 19 contro i 20 di Parigi – dentro i quali il quartiere del Dakar-Plateau, che si allunga verso il mare tutto a sud, è il più moderno e non a caso accoglie ministeri e ambasciate; mentre a stretto contatto con questo rione-bene c’è quello popolare di Medina, con moschee, botteghe e mercati. Non ci sono linee di mezzi pubblici come li intendiamo noi: i bus sono pullmini, spesso di privati, molto colorati e molto affollati, che abbiamo visto però solo in cartolina. Quanto ai taxi, neri o gialli, sfrecciano ovunque e prima di salire devi trattare la tariffa. Divertente per alcuni, stressante per altri.
Dal quartiere Plateau si vede l’isola di Gorée, da dove partivano gli schiavi di gran parte delle regioni del Sahel verso le piantagioni dei Caraibi e degli Stati Uniti. I portoghesi vi costruirono il primo emporio commerciale europeo in Africa, nel 1444; poi con il passare del tempo, il mercato più proficuo divenne quello di esseri umani. Sull’isola, dal 1978 Patrimonio dell’Umanità, c’è appunto la Casa degli Schiavi, una dimora coloniale più o meno come le altre, di colore giallo-ocra e rosso-pompeiano, a due piani, bellissima, la cui visita dovrebbe essere obbligatoria per ogni essere umano. Impossibile non commuoversi, e la guida, lo fa ogni volta insieme con il turista di turno.
Senegal: il mare qui è lavoro e non divertimento
Tornando a Dakar, che dista dall’isola venti minuti di traghetto, ti chiedi perché sulle lunghissime spiagge non ci sia nessuno che nuoti o prenda il sole. Te lo spiegano i colleghi del posto e ti senti una perfetta idiota (o una privilegiata, che non è meglio): il mare da queste parti significa lavoro non divertimento. Cioè i dakaresi (e i senegalesi dal nord al Sud del Paese) sulla spiaggia faticano come carpentieri, falegnami, venditori e trasformatori di pesce. Mentre a largo le canoe pescano.
E per chi non lo sapesse, la gran parte del pesce che mangiamo in Italia viene proprio dal Senegal: tonno, cernia, dorata, pesce spada e marlin blu. Solo nel 2020, secondo uno studio recente, le esportazioni di risorse ittiche hanno raggiunto circa 399milioni di euro, equivalenti a oltre 291 tonnellate di pesce. Un patrimonio messo in pericolo dai primi anni 2000, non solo dal cambiamento climatico, ma anche dalla presenza di grandi pescherecci industriali che si affollano nei 700 chilometri di costa senegalese anche in maniera illegale. Ci sono perfino navi battenti bandiera cinese, che pagano prestanome senegalesi per avere le licenze. Il danno che provocano è enorme perché razziano tutto quello che trovano, non lasciando nulla dietro il loro passaggio. È vero che ci sono accordi delle Nazioni Unite sugli stock ittici che stabiliscono quote per non danneggiare la pesca artigianale delle comunità autoctone, ma, come succede spesso con questo di tipo di obbligo, non sono molto rispettati.
Sono i giovani che lavorano nella filiera della pesca, i meno abbienti ovviamente, che, pur essendo la scuola obbligatoria fino ai 17 anni, l’abbandonano perché non possono permettersi studiare a lungo. Ci viene raccontato da chi conosce bene il Paese vivendoci da tempo: il punto debole, quello che il nuovo corso politico dovrebbe affrontare e risolvere, riguarda proprio loro, la popolazione più giovane, cioè la gran parte dei senegalesi, perché dei 13, 5 milioni di abitanti, la metà ha meno di 18 anni.
E in tutto questo come c’entrano le elezioni mancate e la crisi istituzionale che si è aperta a Dakar da una settimana?
Il pensiero del diplomatico Giuseppe Mistretta
Tornando da Dakar, e soprattutto dopo gli avvenimenti degli ultimi giorni, siamo tornati a rileggere l’ultimo libro sull’Africa di Giuseppe Mistretta, direttore del Dipartimento Africa della Farnesina, “Sabbie mobili”, un osservatore mai banale, fra i primi a interessarsi del “nuovo corso” africano, quello del ritorno ai colpi di stato e alle dittature per risolvere le crisi sociali, economiche e politiche.
La verità, è il pensiero del diplomatico che viene fuori dal libro, è che anche in Africa dovremmo pensare che la democrazia non è soltanto votare, ma un’articolazione complessa di pesi e contrappesi. E quindi che non tutti i Paesi sono uguali. Il Senegal, per esempio, è uno degli Stati più maturi da questo punto di vista, dove la stampa è libera, c’è la divisione fra i poteri, e i partiti sono molti e concorrenti.
Insomma, è vero che quello che è accaduto è grave e mina la credibilità dei politici senegalesi, ma forse possiamo attendere ancora un po’ prima di regalare anche il Senegal al fronte dei dittatori. Magari in memoria del presidente-poeta Léopold Senghor.