Guai a chi osa soltanto pensare che in economia “mal comune è mezzo gaudio”. Solo un pericoloso analfabeta potrebbe gioire di fronte alla gelata dell’economia tedesca e alla stagnazione di quella francese: tutto ciò non allevia affatto i nostri dolori ma purtroppo li moltiplica. Per una ragione molto semplice: che la Germania è il nostro principale mercato di sbocco in Europa e se l’economia tedesca rallenta e il suo Pil, anche per effetto delle tensioni geopolitiche e delle sanzioni anti-Russia, diventa addirittura negativo non occorre essere Einstein per comprendere che le nostre imprese esportatrici avranno qualche problema in più.
Del resto, ricordate come l’Italia è tornata in recessione? L’analisi della caduta del Pil (-0,2% nel trimestre aprile-giugno) parla chiaro: è vero che i consumi e gli investimenti non danno segni di ripresa e non accennano a far ripartire la domanda interna ma la vera e allarmante novità dell’ultimo trimestre è un’altra ed è esattamente l’arretramento del nostro export, che anche nei periodi più difficili era stato per l’economia italiana uno dei pochi punti di forza. Sul “Foglio” di oggi il professor Francesco Forte si chiede se le sanzioni anti-Russia, pur condivisibilissime dal punto di vista dei principi, non finiscano in realtà per danneggiare più l’Europa che l’impero di Putin. E certamente la crisi ucraina e l’addensarsi contemporaneo di tanti focolai di tensione e di tanti stress geopolitici sono una tegola in più sulle nostre fragili economie, ma questo non cancella l’urgenza di una riflessione più profonda sui destini dell’Eurozona.
Se a sette anni dall’inizio della crisi l’America è uscita con una crescita della propria economia ancora debole ma pur sempre oscillante tra il 2 e il 3% e l’Eurozona si divide invece tra recessione e stagnazione è evidente che le diverse ricette che sono state adottate al di là e al di qua dell’Atlantico hanno dato esiti diversi e che l’austerità a senso unico – che è cosa del tutto differente dal rigore, questo sì necessario, in funzione dello sviluppo – è stata l’ultimo errore che il Vecchio continente potesse fare. E un altro è quello di immaginare che ora la Germania cambi completamente rotta: forse Berlino si convincerà a una maggior flessibilità di bilancio ma togliamoci dalla testa che, di fronte alle proprie difficoltà, sia pronta a fare sconti ai suoi partner sulla politica economica europea.
Semmai il discorso è diverso e riguarda l’urgenza che tutta l’Europa si interroghi sul suo perenne gap di crescita rispetto ad altre aree del mondo e sulla inderogabile necessità di avviare un profondo ripensamento del proprio Welfare, dei problemi dell’invecchiamento delle sue società, degli effetti della crisi demografica e di una globalizzazione non intelligentemente governata. E’ vero che la Germania è stata tra le prime a fare le riforme sotto il governo di Schroeder, che infatti perse per questo le elezioni, ma nemmeno Berlino può pensare di vivere di rendita ed è ora che la stessa signora Merkel si rimbocchi le maniche e torni ad aprire il cantiere delle riforme.
Se questo vale per la Germania, figuriamoci per gli altri. Quando si sveglierà la Francia dal sonno e dall’immobilismo che la stanno precipitando in piena crisi? Per non dire ovviamente dell’Italia: purtroppo le riforme non basta annunciarle ma bisogna farle per davvero sapendo che i loro effetti non saranno immediati. A differenza del passato oggi l’Italia ha un premier che lega il suo destino personale alle riforme, ma come si è visto dai tormenti del Senato nemmeno Renzi, al di là della sua personale volontà, ha la bacchetta magica.
Ci vorrebbe allora uno scatto comune di tutta l’Europa, senza che questo escluda per noi l’ineluttabilità di continuare a fare i compiti a casa. E forse è proprio questo, al di là delle mistificazioni strumentali che sono sempre dietro l’angolo, che Mario Draghi voleva dire nella sua ultima conferenza stampa alla Bce quando ha chiesto la parziale cessione di sovranità nazionale dei Paesi membri all’Europa.
Di fronte all’emergenza crescita e al di là degli strumenti non convenzionali che la Bce si è detta pronta a mettere in campo, è forse tornato il momento, come acutamente ricordava Andrea Bonanni su “la Repubblica”, di rispolverare i cosiddetti “accordi contrattuali” in base ai quali un governo si impegna a realizzare precise riforme strutturali in tempi certi in cambio di un temporaneo rinvio degli aggiustamenti di bilancio previsti dalle norme e dai Trattati attuali . E’ un’ipotesi realistica che è nell’interesse dell’Italia esplorare. A condizione che gli “accordi contrattuali” bilaterali con Bruxelles valgano per tutti: per l’Italia ma anche per la Francia e, perché no?, per la Germania.