Condividi

Scuola o Dad? La risposta è “un affare di famiglia”

Scuola o Dad? La risposta è “un affare di famiglia”

“Per conoscere persone. Per farsi nuovi amici”. Così l’assistente sociale risponde al piccolo Shota nel film giapponese “Un affare di famiglia”, diretto da Hirokazu Kore’eda e vincitore del Festival di Cannes nel 2018, oltre che candidato all’Oscar come miglior film straniero. Il bambino, protagonista della complessa storia di una famiglia di “invisibili”, una delle tante che vivono ai margini delle società urbane, aveva appena chiesto: “I bambini che vanno a scuola sono quelli che non possono studiare a casa. Altrimenti perché andare a scuola?”.

La domanda, paradossale e dettata dalla sua condizione di orfano “adottato” dalla coppia Osamu e Nobuyo Shibata, che non può permettersi di iscriverlo a scuola e anzi gli insegna a rubare nei negozi, appare oggi ironicamente attuale. In questi mesi è accaduto il contrario di quanto immaginasse Shota: milioni di ragazzi, in Italia e nel mondo, sono stati costretti a studiare a casa perché non potevano più farlo tra i banchi di una classe, e non viceversa.

A settembre però si proverà a tornare fisicamente in classe, e in un certo senso accadrà proprio perché ci sono dei bambini, e dei ragazzi, che come diceva Shoda “non possono studiare a casa”. Il tema dell’accesso a Internet, della possibilità per tutti di usufruire correttamente delle lezioni online (la cosiddetta Dad, didattica a distanza), anche a chi non ha gli strumenti, o a chi deve condividerli con altri membri della famiglia, è molto sentito ed è uno dei motivi principali per cui la stessa ministra Lucia Azzolina, in Italia, sta spingendo per il ritorno nelle aule.

C’è tuttavia un’altra riflessione che fa da sfondo a questa questione, e che riguarda anche il mondo adulto, cioè a tutti i lavoratori che per fortuna non hanno perso il posto ma che sono da mesi costretti a lavorare in casa, a non vedere i colleghi, a fare infinite riunioni e conversazioni via chat, a dividere gli spazi di casa (non necessariamente ampi) con il partner-parente-figlio che anche lui lavora-insegna-studia da casa.

E’ quella richiamata dalle parole dell’assistente sociale: conoscere persone, farsi nuovi amici. La scuola infatti, così come il lavoro, ha anche questa funzione. Ed è per questo che oggi, se si chiedesse agli alunni cosa preferiscono, la maggior parte risponderebbe che non vede l’ora di tornare in classe, di abbracciare il compagno preferito, di giocare in gruppo a ricreazione. E perché no – e questo vale anche per gli adulti in ufficio – di innamorarsi, di commentare le partite di calcio (che nel frattempo sta ripartendo) sorseggiando una bibita, di capirsi con un’occhiata se si ha un dubbio su una lezione o su un dossier lavorativo, piuttosto che ingaggiare una interminabile sessione di videochat, con rumori di sottofondo e connessione che salta.

Alla fine del film, l’universo di quella famiglia povera si rivela tutt’altro che commovente e consolatorio, e non c’è il lieto fine. La pellicola non parla di scuola, ma il messaggio che passa è che il calore umano, anche nelle sue più spiacevoli imperfezioni, rimane la soluzione migliore.

Commenta