Nel silenzio assordante delle opposizioni (e dei media che sembrano un regime) il governo oscurantista piccona un caposaldo delle riforme di Renzi: la chiamata diretta dei docenti, introdotta dalla legge della “buona scuola”. I sindacati, insieme al neo ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, hanno infatti firmato un accordo transitorio che prevede i criteri che saranno seguiti nell’assegnazione delle cattedre.
E’ davvero un atto scellerato e un salto all’indietro del paese, il simbolo della bruttura populista e dei pericoli democratici che stiamo correndo. Perché? Primo: con un accordo tra un ministro e i sindacati di una categoria, si cancella una legge del parlamento. E’ enorme. E’ il ritorno a 30 anni fa. Al corporativismo sindacale che si impone sul Parlamento. E’ così che la scuola italiana è stata, progressivamente, distrutta. E’ così che è diventata l’occupificio di personale dequalificato, luogo di sprechi e macchina di posti invece che di formazione.
Secondo: la chiamata diretta è il principio base dell’autonomia scolastica. E’ giusto che ogni scuola sia responsabilizzata di più nell’offerta formativa. E di questo fa parte la possibilità di scegliere gli insegnanti. Vederseli imporre per legge è reazionario:è il salto ad un’Italia ottocentesca, contadina, arcaica, burocratica e centralista. Con in più il dispotismo corporativo di un sindacato che ha ridotto la scuola ad una spugna che assorbe personale sganciato da ogni criterio di merito e di produttività.
Terzo: non esiste più, in nessun ambito dell’economia e della società, un mercato del lavoro fondato sulla “chiamata numerica”. Perfino nella vetusta PA il personale dirigente ( e gli insegnati nella scuola “sono” i dirigenti) è scelto in base a criteri di merito. Solo nell’arretrata scuola italiana no: il personale è imposto dalla burocrazia sindacale e amministrativa.
Quarto: la chiamata diretta, scegliendo il personale insegnante, consentiva agli istituti scolastici di cominciare a funzionare come un’impresa. E’ la parola che fa particolarmente schifo ai sindacalisti burocrati e corporativi. Per i quali il servizio pubblico scolastico deve prescindere dal criterio dell’efficienza e restare il luogo del privilegio corporatvo. Il posto di lavoro sicuro (e anche sottocasa), dovuto per anzianità e senza selezione di merito è l’ideologia del sindacalismo burocratico. Che trova ora nel populismo antimoderno, antindustriale e reazionario il suo alleato naturale. E insieme ci riportano al burocratismo centralista della scuola fascista e gentiliana.
E’ un altro attacco di controriforma alle fragili fondamenta del sistema italiano. Auguri a tutti noi: l’Italia gialloverde puzza di muffa e antichi vizi. Altro che nuovo che avanza. E la sinistra, muffa antica anch’essa, applaude all’accordo ministro-sindacati o, tristemente, tace e guarda da un’altra parte.
Quanto scritto in questo articolo è tutto sbagliato, e fa capire che il suo autore è completamente all’oscuro di che cosa sia la scuola dopo la sciaguratissima legge sull’autonomia. Lo sa l’articolista che lo stipendio dei presidi dipende anche dal numero di studenti iscritti nell’istituto da loro diretto? Lo sa che la “valutazione” di presidi e docenti dipende anche dal numero di “successi formativi” (leggi: promozioni) ottenuti dagli alunni? L’interesse dei presidi è quello di avere il numero d’iscritti più alto possibile, il numero di promozioni più alto possibile e la media di voti più alta possibile. Con queste premesse, quali docenti avrebbero “chiamato direttamente” i presidi? Ovviamente quelli di manica extra-larga, quelli per cui i voti inferiori al 6 neppure esistono, per i quali 6 è il voto di chi non sa, 7 quello di chi annaspa e 8 quello di chi è appena sopra la decenza. L’abolizione della chiamata diretta è il primo passo per ridare dignità all’istruzione: il docente è un professionista, e la sua dignità di professionista non può essere alla mercé delle simpatie o antipatie di un preside. Il prossimo passo dev’essere l’abolizione dell’alternanza scuola/lavoro nei licei, quindi la revoca dell’autonomia. Coronamento del tutto l’abolizione della scuola media unificata e la limitazione dell’accesso all’università ai soli maturati dei licei.
Quindi lei ritiene che per accedere a Corsi di Laurea come Economia e Commercio, Giurisprudenza, Agraria , Enologia , Pedagogia , Informatica occorra tassativamente la maturità liceale ? Devp supporre che lei sia un docente e, a mio avviso , neppure un buon docente. I migliori docenti che ho avuto , e ne ho avuti parecchi di eccellenti, sono stati quelli che sapevano bene che per molti di noi la scuola sarebbe stata solo un passaggio, importante, ma non fine a se stesso , un passaggio al mondo del lavoro (che a quanto pare a suo avviso è cosa da plebaglia di istituti tecnici e professionali) . Lo deduco dal fatto che auspichi l’abolizione dell’alternanza scuola lavoro per i licei. Ma i suoi studenti la pensano davvero come lei ? Le suggerisco di provare ad accertasene. Attenzione però, se ne è capace lo chieda con neutralità, perché i ragazzi sono furbi e danno le risposte che intuiscono “giuste”
Quanto ho scritto non è una mia opinione (che non conterebbe nulla) ma la legislazione italiana pre-1968. Quella che ha consentito l’industrializzazione, il boom economico e il benessere diffuso. La scuola del post-68 ha invece prodotto soltanto decadenza: l’Italia dal 1970 in poi è praticamente in crisi cronica: anni ’70 inflazione a due cifre, anni ’80 benessere illusorio creato indebitandosi, dal ’92 (famigerato governo Amato) a oggi crisi ininterrotta. Io ho 47 anni e da quando sono al mondo non ho visto altro che una lenta ma inesorabile decadenza. Della retorica sessantottina ne ho abbastanza. Nel mio intervento ho semplificato per brevità, ma a legislazione pre-1968 era assai razionale (al potere c’era la ragione, non la fantasia), per cui consentiva ad esempio ai ragionieri di iscriversi a economia, ai maestri di iscriversi a magistero. Ma erano eccezioni. La regola era che chi ambiva a laurearsi doveva essere prima di tutto una perona formata a tutto tondo: un ingegnere che fosse completamente digiuno di filosofia era semplicemente inconcepibile. Ed era giusto così perché, e qui sta l’equivoco in cui anche Lei cade, la scuola non è un “passaggio verso il lavoro”, perché l’individuo è una persona, non un lavoratore (tanto è vero che a un certo momento si smette di lavorare ma si resta persone, altrimenti per coerenza bisognerebbe togliere il diritto di voto ai pensionati). L’aspetto di preparazione al lavoro è importante negl’istituti tecnici e ancor più nei professionali (ora snaturati con l’inserimento di moltissime ore teoretiche), ma non nei licei, che preparano non al lavoro ma al proseguimento degli studi. Ed è per questo che l’alternanza scuola/lavoro nei licei non solo non ha senso, ma anzi fa danno. Lei non ha alcun elemento oggettivo per non ritenermi un buon docente; io invece ne ho uno per ritenere Lei una persona presuntuosa, perché azzarda giudizi su chi non conosce sulla sola base di un’affermazione che nulla ha a che fare con la mia attività concreta e quotidiana.
Né ha alcun rilievo nel discorso il pensiero dei miei studenti su questo argomento, così come non m’interessa sapere quale sia il loro pensiero in merito. Quanto all’ultima osservazione sulla presunta “furbizia” dei ragazzi, io non sono certamente il tipo di insegnante (peraltro ben rappresentato in Italia) che usa la scuola come mezzo per indottrinare gli alunni, i quali pertanto per “furbizia” farebbero a gara nel mostrarsi d’accordo. No. Io insegno le mie materie. Le loro opinioni non mi interessano.