Dagli anni ’80 e ’90 abbiamo il ricordo di crisi dei debiti sovrani che afflissero le economie in via di sviluppo. Oggi ne abbiamo la prima dei paesi sviluppati nei tempi moderni; essa ha colpito soprattutto la fascia meridionale dell’Eurozona e l’acronimo PIIGS, nonostante gli strenui tentativi di non includere la I di Italia, è divenuto tristemente noto. Nel documento AIAF è sintetizzato il punto di vista dell’associazione su temi importantissimi come il rafforzamento delle istituzioni europee, un’appropriata cornice costituzionale per le stesse, l’emissione di debito pubblico da parte dell’Unione. Su molte di queste posizioni, in particolare su quelle che invocano un avanzamento nella costruzione europea, convengo pienamente.
Oggi, però, mi concentrerò prevalentemente su uno dei quattro obiettivi che l’AIAF ha sottolineato nel delineare “il caso italiano”: “l’aggressione al debito pubblico” con una terapia shock per realizzare una forte riduzione del debito. Non ne trascurerò, comunque, un altro, il “rilancio della crescita economica” con riforme strutturali che riguardino le liberalizzazioni, il mercato del lavoro, gli ammortizzatori sociali, l’istruzione, la fiscalità, la legalità e… le istituzioni.
Nello schema generale previsto dall’Unione Europea, in vent’anni il debito pubblico italiano di 1.900 miliardi di euro, pari a poco più del 120% del Pil, si deve dimezzare. Ovviamente, non vi sono indicazioni su come raggiungere questo obiettivo. L’AIAF correttamente fa l’inventario delle misure su cui poter fare assegnamento: a) miglioramento del saldo primario, attraverso l’ulteriore riduzione della spesa pubblica o l’aumento della tassazione; b) aumento della crescita economica; c) dismissioni di patrimonio pubblico; d) interventi fiscali temporanei sul patrimonio privato.
L’aumento della pressione fiscale è di fatto impossibile e la riduzione della spesa pubblica, dopo avere affrontato il problema delle pensioni, presenta pochi margini nel campo della spesa sociale, la quale non potrà non aumentare se si dovrà porre mano agli ammortizzatori sociali.
Per quanto riguarda la crescita, le “lenzuolate” di liberalizzazioni cui il Governo Monti si è indotto per le pressioni europee potranno produrre effetti soltanto nel medio periodo, quando cioè i comportamenti (non le norme!) faranno privilegiare la concorrenza, che il sistema italiano è stato sempre restio ad adottare, rispetto alla coalizione degli interessi.
L’attuale programma di dismissioni del patrimonio pubblico (circa cinque miliardi di euro l’anno) appare del tutto insufficiente alla bisogna da un lato e di pressoché impossibile realizzazione dall’altro.
La quarta ipotesi è incentrata su un prelievo fiscale, temporaneo sul patrimonio privato, con effetti immediati sulla consistenza del debito; la sua accettabilità politica, economica e sociale richiede un approfondimento che in questa sede può essere solo parziale. La mia preferenza non va ad un’imposta straordinaria da far pagare in dieci o vent’anni, ma ad un tributo di 300 (o 500) miliardi da riscuotere in tre (o cinque) anni. In questo approccio mi sento profondamente ricardiano.
Anche il Governo Monti sta cercando di seguire le ricette liberali di ridurre l’ingerenza dello stato nell’economia e di affermare i principi del libero commercio. Tuttavia, la nostra situazione finanziaria rimane estremamente tesa ed esposta a ogni refolo di dubbio sulla capacità del paese di effettuare una lunga, estenuante marcia sotto il plumbeo cielo della recessione alla ricerca del Santo Graal, un rapporto debito/Pil del 60%.
L’alternativa residua, in presenza di un eccesso di debito e di rifiuto del default, è il deleveraging del debito sovrano attraverso un’imposta straordinaria sulla ricchezza il cui gettito sia destinato al rimborso di una quota sostanziale, ad esempio un quarto, del debito nell’arco, poniamo, di tre-cinque anni. E’ questa la ricetta ricardiana sulla quale in precedenza mi sono attardato. La mia versione, in verità, è meno dura poiché mira non all’eliminazione del debito pubblico com’era nelle intenzioni di Ricardo ma ad una sua sostanziale riduzione, comunque insufficiente per conseguire il traguardo finale del 60% nel rapporto debito/Pil.
Dinanzi ad una così straordinaria prova di forza per riguadagnare credibilità i mercati dovrebbero reagire riconoscendoci affidabilità attraverso il ridimensionamento del premio al rischio e la restituzione di più adeguati livelli di rating (ammesso che a questi ultimi si debba ancora dare peso). Inoltre, solo un abbassamento sostanziale del premio al rischio richiesto dai mercati allo Stato può riflettersi positivamente sul funding delle banche e contribuire alla fuoriuscita dalla recessione.
Una siffatta decisione per l’Italia avrebbe un effetto riequilibratore: a) della struttura finanziaria, poiché ridurrebbe l’indebitamento pubblico e con ogni probabilità aumenterebbe quello privato per pagare l’imposta; b) della consistenza patrimoniale delle famiglie; c) del tasso di crescita, che tende a cadere quando il rapporto debito/Pil supera il livello critico di 85-90 per cento.
Anche se la ricetta ricardiana incontrò nel Parlamento di Westminster ironia e scetticismo, è da sperare che quasi due secoli dopo il nostro Parlamento possa dare un’attenzione approfondita e interessata a questa opzione, che per essere veramente credibile dovrebbe comportare una delega di supervisione a un organo dell’UE circa la riscossione dell’imposta straordinaria e la sua destinazione integrale al rimborso del debito sovrano.
Potrebbe un simile, delicato progetto essere varato oggi, ad un anno e mezzo dalle elezioni, mentre una maggioranza di salute pubblica sorregge il Governo Monti, voluto dal Presidente Napolitano? Forse no, ma di una forte scossa in tema di debito pubblico v’è bisogno e con urgenza. Dopo aver ascoltato la mia ricetta, chi è rimasto scettico può ben concludere con Orazio: Aut insanit homo, aut versus facit (Satirae, II, 7).
Per approfondire scarica qui sotto il testo completo.
Allegati: Cura omeopatica per il debito pubblico.doc