“Molti sono stati i motivi addotti per spiegare l’incapacità riformatrice dei governi Berlusconi e mi limito a menzionare i due che a me sembrano più importanti.
Il primo riguarda gli interessi e la cultura dei ceti che sostengono elettoralmente la Lega e Berlusconi. Giulio Tremonti è rimasto forse l’ultimo ad adottare categorie marxiste (gramsciane) nell’analisi elettorale e parla di un “blocco sociale” produttivo e progressista, largamente basato nel Nord del paese e costituito da persone che traggono le loro risorse dal mercato (piccole imprese, artigiani, commercianti, partite Iva, lavoratori autonomi, professionisti), al quale si opporrebbe a un diverso blocco sociale costituito da dipendenti pubblici e altri che vivono dell’intermediazione statale, specialmente nel Sud. Il primo “blocco” sosterrebbe il contro-destra e il secondo voterebbe prevalentemente a sinistra.
E’ un’interpretazione che fa acqua da molte parti e basta la lettura di un lavoro serio di sociologia elettorale (ad esempio il libro di Bellucci e Segatti, già citato) per rendersene conto. Ma anche se riconosciamo quanto c’è di vero nell’analisi di Tremonti – è vero che in alcune regioni del Nord il grosso dei ceti prima menzionati vota prevamentemente per Bossi e Berlusconi – è tutto da dimostrare che questo blocco sociale sia produttivo e progressista, che sia disposto ad accettare entusiasticamente riforme modernizzanti e liberali. Chiede minori imposte e migliori servizi pubblici, ed è comprensibile. Ma chiede anche protezione e difesa contro la concorrenza. E’ un ceto che arranca nelle condizioni economiche difficili degli ultimi due decenni, che arriva a esse in larga misura impreparato, assuefatto al clima meno competitivo e alle politiche lasche della Prima Repubblica, un ceto che in misura non piccola è oggi fuori gioco. E sono infatti relativamente poche (rispetto alle dimensioni del paese) le piccole imprese che sono riuscite ad adattarsi alla concorrenza internazionale, per non dire di lavoratori autonomi, commercianti, artigiani e professionisti, disperatamente aggrappati alle proprie difese corporative e categoriali. Se questi erano e sono i suoi elettori, non è difficile capire perchè Berlusconi non abbia dato seguito al programma liberale sbandierato ai tempi della sua “discesa in campo”.
Ma se avesse voluto, avrebbe potuto? Vengo così al secondo motivo che potrebbe spiegare la mancanza di slancio riformatore dei governi Berlusconi. Non credo che la richiesta di riforme che adattino la nostra Costitutzione alla situazione bipolare della Seconda Repubblica abbia molto a che fare, da parte di Berlusconi, con l’esigenza di far passare riforme necessarie ma difficili, che contrastano con gli interessi, le mentalità e le domande dei suoi stessi elettori. Insomma, con vere esigenze di governabilità e di progresso. Ma credo che – se esistesse un ceto politico che a queste esigenze è sensibile – una riforma costituzionale sarebbe necessaria: la Costituzione del 1948, col suo bicameralismo paritetico, con suo parlamentarismo, limita severamente le capacità di un governo di attuare in modo spedito il programma elettorale sulla base del quale ha vinto le elezioni.
In ogni caso far passare un programma fortemente innovativo sarebbe difficile, e anche Reagan e Thatcher incontravano difficoltà serie. Ma non così forti come sareebbe avvenuto in Italia, essendo l’uno facilitato dalla Costituzione americana di governo diviso, che allora giocava a suo favore, l’altra del sistema Westminster e dai poteri che esso conferisco al primo ministro quando la sua maggioranza è compatta.”