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Salario minimo sì ma meglio con la contrattazione che per legge: ecco perché

Imagoeconomica

In un editoriale su La Repubblica, il Direttore Maurizio Molinari trova il modo di collegare il sovranismo al salario minimo legale, nel senso che, a suo avviso, la contrarietà del Governo allo Smic (Salario minimo di crescita interprofessionale) è un’espressione di sovranismo perché questo istituto è vigente in 21 dei 27 paesi europei. Questa constatazione potrebbe essere correttamente capovolta così: nei 21 paesi in cui è in vigore il salario minimo legale non è presente o non ha rilievo prioritario la contrattazione nazionale di categoria, che è la colonna portante del sistema di relazioni industriali dell’Italia.

Salario minimo legale e contrattazione collettiva: come incidono

Non a caso nei paesi in cui è presente un salario minimo legale, tranne pochissime eccezioni (Belgio e Francia), la copertura della contrattazione risulta inferiore all’80% dei lavoratori; al contrario i paesi privi di un salario minimo legale presentano tassi di copertura superiori all’80% (tranne Cipro). Gli Stati membri con un tasso di copertura della contrattazione collettiva superiore al 70 % mostrano una più ridotta percentuale di lavoratori a basso salario.

Tanto che la Direttiva europea 2022/2041 del 19 ottobre 2022, adottata anche in Italia, non contiene alcun obbligo a introdurre un salario minimo legale per i sei paesi, tra cui il nostro, che non lo prevedono nel loro ordinamento. Anzi – come ha ricordato Emmanuele Massagli su Tempi – è la stessa Unione Europea a chiarire che il salario minimo legale non è garanzia del riconoscimento di una retribuzione minima tutelante (“equa”, secondo l’articolo 36 della nostra Costituzione). I dati del 2020 (gli ultimi disponibili) dimostrano che solo in tre Paesi nell’Unione europea il livello del salario minimo legale è ritenuto adeguato, intendendosi con questo termine, pari almeno al 60 per cento del salario lordo mediano o al 50 per cento del salario medio del singolo Paese.

Contrattazione collettiva e contratti pirata: il caso dell’Italia

La contrattazione collettiva in Italia copre – secondo le più recenti valutazioni – il 97% dei lavoratori dipendenti. Per giustificare l’introduzione dello Smic (Salario minimo di crescita interprofessonale) si chiamano in causa i cosiddetti contratti pirata, un fenomeno di dumping sociale in espansione, ma sopravvalutato perché riguarda una netta minoranza di lavoratori; poi tali contratti non vanno confusi necessariamente con quelli stipulati da organizzazioni sindacali minori, non rappresentate nel Cnel. Ad osservare i numeri – anche se non c’è un quadro nitido che andrebbe costruito prima di infilarsi nei vincoli di una legge – sono 12 milioni i lavoratori coperti da contratti stipulati da Cgil, Cisl e Uil; 330mila circa da contratti riconducibili a sindacati minori; 30mila soggetti al capestro dei contratti pirata.

Cosa sono i contratti pirata

La tipologia di questi contratti è di solito la seguente: un gruppo di aziende in un determinato territorio stipulano con organizzazioni di comodo dei contratti da loro definiti ‘’nazionali’’ e li applicano ai loro dipendenti attraverso quanto disposto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come mutilato da uno sciagurato referendum del 1995, promosso dalla sinistra politica e sindacale sempre pronta a tagliare il ramo su cui sta seduta. E’ assurdo – vedremo perché – stabilire un salario orario minimo ‘’universale’’ per fronteggiare queste situazioni, quando sarebbero sufficienti l’iniziativa sindacale, l’azione amministrativa degli enti preposti e soprattutto il ricorso ad una giurisprudenza consolidata che individua la retribuzione ‘’proporzionata’’ e ‘’sufficiente’’ – di cui all’articolo 36 della Costituzione – nei minimi tabellari dei contratti collettivi più importanti.

Salario minimo: una riedizione della scala mobile

È nella realtà delle cose che il salario minimo legale e la contrattazione nazionale di categoria finiscano per svolgere, almeno sul piano retributivo, la medesima funzione, tanto più che l’importo di 9 euro orari lordi sarebbe pari all’87% del salario mediano e pertanto resterebbero spazi molto limitati per la contrattazione, soprattutto perché lo Smic funzionerebbe come una riedizione della ‘’scala mobile’’ di infausta memoria. La revisione periodica del salario minimo legale condizionerebbe i rinnovi dei contratti, anche perché la rivendicazione di un adeguamento ope legis, magari nella legge di bilancio (dove è previsto un fondo che aiuti le imprese a sostenere i maggiori oneri) diventerebbe per i sindacati – quella della pressione sulla politica – la strada più facile da seguire rispetto al negoziato con le controparti. Soprattutto in un contesto di inflazione sostenuta. A suo tempo, dopo l’accordo Agnelli-Lama sul punto unico di scala mobile del 1975 – come scrisse Pierre Carniti – ‘’l’incidenza sull’incremento delle retribuzioni nominali, dovuto all’indennità di contingenza, passa dal 49,6% del 1974 all’87,2% nel 1980’’.

In sostanza, l’automatismo della ‘’scala mobile’’ finiva per mettere in discussione ed occupare abusivamente il ruolo stesso di ‘’autorità salariale’’ del sindacato. Ben presto divenne palese che il vero vincitore di quello storico negoziato (che sfasciò gli inquadramenti professionali) non fu Luciano Lama, ma l’Avvocato per antonomasia. I sindacati restarono invischiati in quella trappola fino al 1992, e trovarono una via d’uscita solo col protocollo dell’anno successivo.

Il salario minimo apre le porte alla contrattazione decentrata

Non è un caso che la Confindustria non abbia preso le distanze, con determinazione, dalla proposta di legge delle opposizioni. Se i minimi contrattuali nazionali si mettessero a salire sul montacarichi dello Smic, è evidente che lo scambio effettivo tra imprese e lavoratori si sposterebbe a livello della contrattazione decentrata e di prossimità. Un cambiamento sicuramente auspicabile anche perché favorirebbe l’incremento della produttività che ora non è un riferimento affidabile – perché non esiste una produttività media attribuibile a un settore – nelle dinamiche del negoziato per il rinnovo dei contratti nazionali.

Ma una struttura produttiva come la nostra, con milioni di piccole imprese, reggerebbe una svolta tanto netta? A questo punto nella mistica sindacale si palesa un altro miraggio: la legge sulla rappresentanza che dovrebbe consentire l’applicazione erga omnes dei contratti sottoscritti dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative (nessuno ha mai saputo chiarire il significato di questa definizione). Ma se le parti sociali non sono riuscite neppure a venire a capo del Testo Unico sulla rappresentanza del 2019, che pur restava nell’ambito della contrattazione privata, si illudono di poter gestire una legge che complicherebbe di gran lunga i problemi e le procedure nell’ambito di platee dove l’associazionismo imprenditoriale e sindacale – pure esprimendo un tasso tra i più elevati nell’Ocse – riguarderebbe, comunque, solo delle minoranze sia per il criterio degli iscritti che per quello degli eletti nelle RSU. Se non ha mai avuto attuazione l’articolo 39 della Costituzione e se non è mai stata approvata una legge sul tema ci sono delle ragioni, ignorando le quali si finisce per essere fuori della realtà. 

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