Ci sono persone che si attaccano ai dati, come gli ubriachi ai lampioni. A loro non interessa fare luce ma solo evitare di cadere nel loro incerto cammino. Parliamo della buriana del salario minimo che ha tenuto banco per tutto luglio e qualche settimana di agosto con un intreccio di colpi di scena, di mosse a sorpresa, di finte ritirate e improvvisi contrattacchi, che mi hanno riportato ai miei studi liceali. Mi sono tornati in mente i canoni delle tragedie di Euripide, dove la complessità della narrazione veniva risolta, alla fine, dal deus ex machina che veniva calato sulla scena con un argano e dipanava le storie fino a quel momento confuse spiegando agli attori e al pubblico come stessero effettivamente le cose. Ecco, in questa vicenda non ci siamo fatti mancare nulla, persino il demiurgo sotto specie di Renato Brunetta, presidente del Cnel, a cui il governo ha affidato il compito di formulare delle proposte contro il lavoro povero, anziché individuare un numeretto, diverso dal 9, da giocare al lotto su tutte le ruote. Il Cnel, già l’11 luglio, in audizione alla Camera aveva presentato una memoria – approvata all’unanimità dal Consiglio – nella quale veniva ribadito il nodo gordiano del problema che non poteva essere reciso con una legge sul salario minimo. E a questo punto l’attenzione si sposta sui dati. Pare accertato che 3,5 milioni di lavoratori percepiscano retribuzioni inferiori a 9 euro orari.
I settori s(coperti) dalla contrattazione collettiva
Ma qualche cosa non torna. Dai dati Cnel e Inps – relativi a 434 Ccnl privati e a 12.914.115 lavoratori, (sono esclusi i contratti agricoli e dei lavoratori domestici) emerge che 162 (37,3%) firmati dalle maggiori organizzazioni sindacali confederali coprano 12.517.049 lavoratori (97%) e 272 contratti (62,7%) firmati da organizzazioni sindacali diverse da quelle confederali coprano 387.066 lavoratori (3%). Questi contratti non vanno meccanicamente annoverati come “pirata’’. Secondo stime attendibili, quest’ultima tipologia in regime di dumping riguarda lo 0,3% del complesso dei lavoratori (44mila). Il che significa che la maggior parte 3,5 milioni di lavoratori <under 9 euro> appartengono a settori (s)coperti dalla contrattazione collettiva. Il fatto è che il 17° Report Cnel di luglio ha certificato che dei 976 Ccnl relativi al settore privato, 553 risultano scaduti (57%). I lavoratori privati con un contratto scaduto sono 7.732.902, il 56% del totale. Tra i settori contrattuali privati caratterizzati dal maggior numero di dipendenti con contratto scaduto domina la classifica quello del “Terziario e Servizi”, con il 96%, seguito dal settore “Credito e Assicurazioni” con l’85%. Ben diversa la situazione relativa al settore dei “Trasporti” con solo il 6% di dipendenti con contratto scaduto, seguito da “Edilizia, legno e arredamento” e “Aziende di servizi”, con una percentuale pari al 15%. È grave che un settore in espansione, anche sul piano occupazionale come il ‘’terziario e servizi’’ versi in questa condizione di debolezza sindacale. Le grandi confederazioni, ad esempio, hanno ‘’regalato’’ il settore cruciale della logistica ai Cobas.
La scorciatoia del salario minimo per legge
Emergono quindi alcune evidenze: è una falsificazione quella di gloriarsi di un’elevata copertura contrattuale, quando la macchina dei rinnovi (le cui modalità sono stabilite in una sequela di accordi interconfederali) si è inceppata; è un maledetto imbroglio quella di incolpare i c.d. contratti pirata che riguardano un’esigua minoranza di lavoratori e che sono aggredibili già a legislazione vigente; il voler ricorrere al salario minimo per legge sarebbe una scorciatoia che prenderebbe prima o poi il posto della strada maestra della contrattazione collettiva. Per altro potrebbe suscitare un po’ di macabra ironia la pretesa dei sindacati dell’estensione erga omnes di contratti che non esistono o che sono da anni in attesa di rinnovo. Con l’aiuto del Cnel occorre affrontare il punto cruciale della paralisi della contrattazione collettiva. Avvalendosi di questo contributo e della possibilità di pressione politica e dei contenuti della risoluzione approvata dalla Camera nel dicembre scorso (dove veniva esclusa l’introduzione del salario minimo mentre continuava ad essere privilegiata il metodo della contrattazione, il governo potrebbe compiere due mosse: 1) convocare le parti dei contratti scaduti, in particolare, nei settori del terziario e dei servizi riguardanti il maggior numero di lavoratori interessati e seguire direttamente il negoziato, magari arrivando in caso di necessità ad una proposta di mediazione da prendere o lasciare; 2) convocare le principali associazioni di imprese e confederazioni sindacali operanti nei settori in cui i contratti sono scaduti per promuovere un accordo quadro di acconto, in regime di una tantum (esente da prelievo fiscale) in cui sia prevista una erogazione ragguagliata, almeno in parte, al divario dell’inflazione. In quest’ambito il governo potrebbe indicare un termine entro il quale avviare o riprendere e concludere i negoziati, riservandosi un eventuale intervento propositivo che tenga conto delle posizioni a cui era arrivata la singola trattativa e dei punti che ostacolano maggiormente una conclusione positiva. Quanto al salario minimo si potrebbe iniziare una sperimentazione (non certo a 9 euro all’ora, ma ad una cifra inferiore), limitata ai settori non coperti dalla contrattazione collettiva.
Il caso di Mondialpol
Questo percorso, naturale durante la gloriosa Prima Repubblica, sembra preferibile alle due ‘’scuole di pensiero’’ debole presenti nel dibattito: a) detassare gli aumenti stabiliti nei rinnovi (insieme alla detassazione del lavoro straordinario, per turni, ecc.); b) concedere i benefici fiscali e operativi soltanto alle aziende dei settori in regola con i rinnovi contrattuali; a questo proposito si parla anche di rivedere negli appalti le clausole del massimo ribasso. A mio avviso, si tratta di alternative non solo inutili, ma con effetti controproducenti. Non sono le singole aziende a dover rispondere e rimediare alle eventuali inadempienze delle loro associazioni rappresentative, per cui non serve premiarle o penalizzarle a meno che non le si consenta di rimediare sul piano aziendale, mandando così in frantumi il contratto nazionale di categoria. Negli ultimi giorni la realtà ha dimostrato più fantasia dell’immaginazione. La procura di Milano ha indagato Mondialpol, la maggiore società di vigilanza privata, per caporalato e sfruttamento dei lavoratori, sottoponendola al controllo giudiziario. La sociètà, dal conto suo, è corsa ai ripari decidendo un sostanzioso aumento scaglionato per il personale che presta servizio senza l’uso delle armi, ovvero coloro che svolgono il ruolo di uscieri e di portinai, nelle istituzioni pubbliche e private. La motivazione dell’intervento giudiziario ‘’anomalo’’ riguardava la corresponsione di stipendi ritenuti troppo bassi. A mio parere si tratta di un abuso di potere bello e buono; una palese violazione del comma 1 dell’articolo 39 Cost. che sancisce la libertà dell’organizzazione sindacale. Da decenni esiste una giurisprudenza consolidata che, tramite l’articolo 36 Cost. ha assicurato una tutela retributiva anche in un ordinamento di diritto comune, dove i contratti valgono solo per gli iscritti. Chiamati ad individuare il criterio della retribuzione proporzionata e sufficiente i giudici hanno sempre fatto riferimento alle tabelle negoziate dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative nei contratti da loro sottoscritti. Nel caso Mondialpol si va oltre quanto convenuto in sede negoziale; i magistrati si sono arrogati l’arbitrio di decidere loro persino se quanto previsto dai contratti corrisponda a quei criteri costituzionali.
Immagino che questo intervento abusivo sarà salutato come un fatto positivo, da chi non è più in grado di fare il proprio mestiere, come i sindacati. Siamo tornati invece all’ordinamento fascista del lavoro, quando la magistratura del settore, in caso di mancato accordo tra le parti, decideva in proprio. Ma allora la libertà sindacale non esisteva. Capita sempre a chi si incammina verso sinistra di ritrovarsi a destra.