I media, in particolare i talk show televisivi, sono diventati delle fumerie di oppio, molto più pericolose degli spacci di cannabis light a cui ha dichiarato guerra Matteo Salvini. Si dedicano pagine e ore di trasmissione alle guerre intestine della maggioranza, agli scambi di battute tra i due “vice”, a episodi di cronaca (come la caccia ai Rom) che non fanno onore al Paese. Nel frattempo – ad insaputa dell’opinione pubblica – si stanno cambiando (o almeno si cerca di farlo) le regole consolidate delle relazioni industriali.
La cosa è importante sotto molti aspetti. Sul piano politico, innanzitutto, perché sulle nuove regole è destinata a formarsi un’ampia convergenza tra una parte della maggioranza (il M5S) e una dell’opposizione (sicuramente il Pd, se non anche “i cani perduti senza collare” alla sua sinistra). Il tutto con la benedizione dei sindacati (da viale dell’Astronomia per ora non arriva alcun suono: quindi dovrebbe valere il principio del silenzio-assenso).
Ormai sono “passati in giudicato” quota 100 (e dintorni) e il reddito di cittadinanza: misure che, in fase di attuazione, confermano le critiche loro rivolte. Nel caso delle pensioni, non vi è (o è assai modesto) l’effetto sostitutivo di manodopera, mentre, per quanto riguarda il RdC, si verifica e si allarga quella discrepanza che si era temuta tra la fase dell’assistenza e quella delle politiche attive. Nel primo caso le prestazioni sono erogate senza fare troppe storie; nel secondo si è ancora alla ricerca di navigator tuttofare (se mai ne saranno capaci).
Il Parlamento ora si sta occupando di due temi importanti: la Commissione Lavoro della Camera sta conducendo l’esame dei ddl sulla rappresentanza sindacale, mentre quella del Senato si sta occupando da settimane dei ddl sul salario orario minimo. In parallelo con l’attività referente nelle Commissioni sono in corso dei confronti tra il governo e le organizzazioni sindacali, che proseguono in maniera abbastanza costruttiva. Pur rischiando il paradosso, si ha l’impressione che tra uno dei due governi contemporaneamente in carica nel Paese (uno giallo, l’altro verde, ambedue presieduti da Giuseppe Conte in regime di unione personale) e le organizzazioni sindacali storiche sia in corso di stipulazione un Patto di Palazzo Vidoni alla rovescia.
Allora, nell’ottobre del 1925, furono estromessi i sindacati democratici e riconosciuta la rappresentanza esclusiva alle organizzazioni corporative fasciste. Oggi il “governo giallo” cerca una legittimazione (che a Berlusconi non fu mai concessa) da parte di Cgil, Cisl e Uil. Ed ha predisposto, in cambio, un pacchetto ambizioso di tutele sindacali. Da un lato – con diversi progetti di legge presentati da deputati della maggioranza e dell’opposizione ora all’esame della Commissione Lavoro alla Camera – si profila un sistema di rappresentanza mutuato dagli accordi sindacali e dal c.d. Testo Unico sulla rappresentanza del 2014.
Sostanzialmente l’impianto si riferisce al solito mix di iscrizioni e di voti: per quanto riguarda la misurazione del dato elettorale, i pdl stabiliscono la rilevazione dei risultati conseguiti dai sindacati nelle elezioni delle rappresentanze unitarie, considerando la percentuale dei voti ottenuti sul totale dei votanti. I risultati, quindi, sono comunicati al Cnel. L’accertamento della rappresentatività, ancora, compete al Cnel, che, a livello nazionale, considera rappresentative le organizzazioni sindacali dei lavoratori che hanno nella categoria o nell’area contrattuale una rappresentatività pari almeno al 5%.
Un’impostazione siffatta non è incompatibile con quanto previsto dall’articolo 39 Costituzione, ovviamente dando per acquisiti gli statuti “a base democratica”. Qualche problema – ad avviso di chi scrive – si presenta invece nei criteri adottati per dare efficacia erga omnes ai contratti collettivi. Il clou dell’operazione si svolge al Senato, per ora in Commissione Lavoro, in occasione dell’esame dei ddl proposti per l’introduzione del salario minimo garantito. Senza far torto a nessun gruppo i due disegni di legge più importanti sono quello della presidente Nunzia Catalfo (M5S) e quello del sen. Tommaso Nannicini (Pd), che ha incorporato il ddl a prima firma Laus presentato in precedenza da un gruppo eterogeneo di senatori di sinistra.
Il ddl Catalfo collega il salario minimo direttamente all’articolo 36 della Costituzione, nel tentativo di sfuggire al Ghino di Tacco appollaiato sull’articolo 39. Recita, infatti, l’art. 2: “Si considera retribuzione complessiva proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 1 (che fa riferimento all’articolo 36 Cost., ndr) il trattamento economico complessivo, proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale (omissis), il cui ambito di applicazione sia maggiormente connesso e obiettivamente vicino in senso qualitativo, anche considerato nel suo complesso, all’attività svolta dai lavoratori anche in maniera prevalente e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri contributivi e previdenziali’’.
In sostanza, con un volo pindarico sul piano giuridico, il ddl pentastellato – prescindendo dall’articolo 39 della Costituzione – vorrebbe attribuire efficacia erga omnes “al trattamento economico complessivo” sancito nei contratti collettivi attraverso l’applicazione dell’articolo 36. In più, stabilisce che il salario orario legale (quindi anche quello contrattuale) non possa essere inferiore a 9 euro lordi. L’articolo 3 dispone, inoltre, che “In presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili ai sensi dell’articolo 2, il trattamento economico complessivo che costituisce retribuzione proporzionata e sufficiente non può essere inferiore a quello previsto per la prestazione di lavoro dedotta in obbligazione dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria stessa, e in ogni caso non inferiore all’importo previsto al comma 1 dell’articolo 2 (i 9 euro, ndr)”.
Riassumendo, il ddl Catalfo rimette ope legis i sindacati storici al centro del sistema, concede la copertura della legge ai contratti da loro sottoscritti insieme ai datori di lavoro e fornisce loro una base di 9 euro l’ora.
Il ddl a prima firma Nannicini fissa come norma primaria il principio secondo cui la giusta retribuzione è rinvenibile nella disciplina dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle associazioni di rappresentanza dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, in relazione al settore di appartenenza. Il trattamento minimo tabellare stabilito dal contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato dalle associazioni di rappresentanza si applica a tutti i lavoratori del settore, ovunque impiegati nel territorio nazionale. Dove fa capolino il salario minimo? Negli ambiti di attività non coperti dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni di rappresentanza, è istituito il salario minimo di garanzia quale trattamento economico minimo che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere al lavoratore a cui si applica la disciplina del lavoro subordinato, secondo gli importi stabiliti.
La differenza tra i due progetti è sottile ma percepibile. Il ddl del M5S assume il salario minimo come riferimento generale anche per la contrattazione collettiva, mentre il ddl Pd attribuisce al salario minimo un ruolo di garanzia per quei settori privi di copertura contrattuale.
Le organizzazioni sindacali hanno sempre nutrito forti riserve nei confronti dell’istituzione di un salario minimo legale che, a loro avviso, potrebbe mettere in discussione una giurisprudenza consolidata secondo la quale la retribuzione equa e proporzionata, prevista dall’articolo 36 Cost., è corrispondente a quella stabilita dalla contrattazione collettiva. Il fatto è che, nel giro di qualche anno, il numero dei contratti (in regime di diritto comune) è esploso con decine di cosiddetti accordi pirata stipulati da organizzazioni sindacali “figlie di un dio minore” che prosperano sul dumping. Non è facile uscire da una situazione siffatta, perché non sembra costituzionalmente corretto attribuire all’articolo 36 le prerogative che la Carta riconosce all’articolo 39 dove sono contemplati percorsi e procedure che consentono alle organizzazioni datoriali e sindacali di stipulare unitariamente contratti con efficacia generale.
Finora la giurisprudenza costituzionale non ha mai consentito l’adozione di scorciatoie come, in fondo, sono anche quelle che vengono discusse in Commissione Lavoro del Senato. Non dovrebbero esserci problemi a risolvere con le modalità suddette la questione dell’efficacia erga omnes dei minimi, ma è sicuramente un altro paio di maniche attribuire tale efficacia a contratti collettivi, nella loro interezza e complessità economica e normativa (ecco “il trattamento economico complessivo”), negoziati e stipulati nell’ambito del diritto comune.