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Salari italiani in discesa dal 1990 e negli ultimi tre anni ogni lavoratore ha perso mille euro: ecco quali sono le vere ragioni

FIRSTonline

La notizia di politica economica che ha ricevuto più commenti la scorsa settimana l’ha fornita l’Ocse con riferimento ad una delle più note e decantate criticità del mercato del lavoro in Italia: il tormentone dei salari che non crescono. Secondo il Rapporto dell’Organizzazione dei paesi industrializzati, l’Italia è l’unico Paese dell’Unione europea ad aver fatto registrare una variazione negativa dei salari reali tra il 1990 e il 2020. Se si considera, poi, il rapporto tra prezzi e retribuzione oggi si guadagna meno che nel 1990. Analizzando, invece, il periodo tra il 2019 e il 2022, il salario medio annuo di ogni lavoratore italiano è diminuito di circa mille euro. In altri termini: se nel 2019 lo stipendio medio era di circa 43mila euro, nel 2022 è sceso a 42mila euro. Nel triennio quindi l’Italia ha registrato una diminuzione complessiva del -3,4% nei salari. Questa condizione viene denunciata dalle organizzazioni dalla sinistra politica e sindacale come se fosse una responsabilità da attribuire al governo di centro destra e – secondo qualcuno più radicale – anche ai precedenti governi di centro sinistra ‘’deviati’’ dal neoliberismo, tanto che la Cgil sta raccogliendo le firme per sottoporre a referendum abrogativo le norme’’ figlie della colpa’’.

Naturalmente a spigolare tra i vari report, focus e commenti c’è modo di reperire qualche spiegazione fondata delle ragioni che hanno determinato quello stallo delle retribuzioni che sta finendo nella coda di pesce di un minore potere d’acquisto effettivo divenuto ormai strutturale.

Occorrerebbe riflettere sui motivi che hanno concorso a determinare la stasi delle retribuzioni.

Perché sono diminuiti i salari

A partire dal 2000, l’andamento della produttività del lavoro (che non è un problema che chiama in causa i soli lavoratori) è stato pressoché stazionario mentre quello delle principali economie del G7 ha continuato a crescere, segnando una distanza massima raggiunta nel 2021 di 23,7 punti percentuali. Un’altra criticità risiede nella struttura della contrattazione collettiva che in Italia continua ad essere centralizzata e cioè imperniata sul primo livello (il contratto nazionale di categoria). Permane la difficoltà del pieno dispiegarsi del modello di doppio livello di contrattazione collettiva. Così se il perno della struttura contrattuale sta nella contrattazione nazionale di categoria (anche i sindacati hanno compiuto un passo indietro in questa direzione dopo aver tentato di gettare il cuore oltre l’ostacolo con la contrattazione decentrata e di prossimità che è anche favorita a livello fiscale se rivolta a certi obiettivi di produttività e di partecipazione) è evidente che la rivisitazione del salario si effettua a scadenze troppo lunghe ragguagliate alla decorrenza e scadenza dei contratti stessi e ai tempi necessari al loro rinnovo. Se mediamente il tempo della vacanza e pari a 32 mesi, in taluni settori trascorrono anni mentre nel frattempo il costo della vita subisce variazioni in tempi più ravvicinati che rendono inadeguato l’ammontare delle retribuzioni concordate in precedenza nel contesto di condizioni diverse.

Il problema del cuneo fiscale e contributivo

Basti pensare agli sconvolgimenti intervenuti negli ultimi anni con la crisi pandemica prima e la guerra in Europa, poi, con tutte le conseguenze sui costi delle materie prime e delle forniture energetiche e sul commercio internazionale. Vi è poi la questione del cuneo fiscale e contributivo, a riduzione del quale sono stati effettuati, benché transitori, interventi importanti, ma che resta più alto che nell’Area Euro per tutti i lavoratori tranne che per i single a basso reddito, per i quali il cuneo fiscale è in linea con l’Area Euro e risulterebbe addirittura inferiore includendo il Bonus 80 Euro.

Il divario si allarga ulteriormente se consideriamo una media semplice dei dieci maggiori paesi dell’Area Euro: il cuneo per un lavoratore che guadagna il salario medio e ha tre familiari a carico è di 5,4 punti più alto della media di questi paesi. Questo disincentivo di carattere fiscale ha dirottato la contrattazione decentrata verso esperienze diffuse di welfare aziendale, il cui trattamento fiscale è sicuramente più vantaggioso sia per l’impresa che per i lavoratori, ma che non si trasforma in un ‘’pasto gratis’’.

La legge di bilancio2024

Il governo nella legge di bilancio2024 è intervenuto sul cuneo sia sul piano fiscale che su quello contributivo. L’Ufficio parlamentare di bilancio (UPB) ne ha calcolato gli effetti, rappresentati nei grafici che seguono.

La decontribuzione produce in media per il complesso dei contribuenti fino a 28.000 euro un incremento percentuale di reddito sostanzialmente omogeneo, di poco superiore al 2 per cento. L’effetto è condizionato dalla presenza all’interno delle classi di reddito di soggetti che non beneficiano della decontribuzione in quanto non lavoratori dipendenti. L’omogeneità dell’incidenza si riflette in un beneficio in valore assoluto maggiore per le classi di reddito più elevate.

La riforma Irpef

L’Irpef manifesta i suoi effetti in maniera sensibile nella classe 15.000 – 28.000 euro, sommandosi all’effetto della decontribuzione, garantendo ai soggetti compresi in questo intervallo il vantaggio complessivo più elevato, sia in termini assoluti che rispetto al reddito di base. L’Irpef, tuttavia, manifesta i suoi effetti più rilevanti nella classe successiva, dove però la decontribuzione ha già sensibilmente ridotto i propri effetti. Per la classe oltre 50.000 euro di reddito imponibile, il beneficio incide in misura molto limitata sul reddito (circa lo 0,2 per cento, un valore sensibilmente più basso di quello riscontrato nelle altre classi). La riforma Irpef, infatti, garantisce un beneficio in cifra fissa di 260 euro, decurtato per chi ha oneri detraibili diversi dalle spese sanitarie. L’effetto più consistente della decontribuzione si ha sugli operai, a cui viene garantito un incremento del reddito pari a circa il 3,4 per cento, mentre per il complesso della categoria degli impiegati la stessa percentuale si attesta all’1,9 per cento, anche perché non tutti sono beneficiati dalla misura. Per entrambe le categorie di lavoratori emerge un’incidenza del beneficio sul reddito maggiore per i soggetti con redditi più bassi a cui corrispondono benefici omogenei in valore assoluto.

L’intervento sull’Irpef invece ha caratteristiche speculari, con un effetto meno progressivo: l’incremento percentuale dei redditi è omogeneo, mentre l’incremento assoluto premia gli impiegati. Le altre categorie, non interessate dalla decontribuzione se non marginalmente nel caso di soggetti con più tipologie di reddito, beneficiano sostanzialmente della riduzione dell’Irpef. Per i pensionati l’incidenza del beneficio e, in misura relativamente maggiore, il beneficio assoluto risultano inferiori a quelli di operai e impiegati.

Seguono poi alcune considerazioni con riguardo ai beneficiari che contraddicono quanto si sarebbe portati a pensare in base ai luoghi comuni che infestano le analisi dei fatti economici e sociali. Secondo l’autorevole UPB la decontribuzione garantisce un incremento percentuale dei redditi più elevato per i lavoratori dipendenti a tempo parziale rispetto ai lavoratori a tempo pieno, che vengono invece premiati maggiormente dalla riforma dell’Irpef. Va infine osservato che la decontribuzione garantisce un sostegno sensibilmente maggiore ai più giovani, soprattutto nella classe fino a 35 anni. Benché i differenziali siano molto meno pronunciati, i giovani risultano più avvantaggiati in termini relativi anche nel caso della riforma Irpef. La diversa portata redistributiva dei due istituti si manifesta, anche se in misura appena percettibile, nei differenziali per genere che vedono le donne premiate in termini di incidenza del beneficio.

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